giovedì 20 novembre 2008

Changeling e i marziani a tre teste

Qualche pazzo, in America (una minoranza, ma pur sempre significativa) ha scritto che l’ultimo film di Clint Eastwood (l’ultimo grande Autore Classico del cinema rimasto) è un film minore. Capisco che negli ultimi dieci anni Clint abbia fatto a gara a superare se stesso e che il peggiore dei suoi film è più grande della maggior parte degli altri, ma anche se paragoniamo l’ultima pellicola ai magnifici “Mystic River”, “Million Dollar Baby” e “Lettere da Iwo Jima”, queste affermazioni mi lasciano alquanto perplesso. A tal punto da farmi fare una brevissima considerazione a riguardo:
Se “Changeling” non è un capolavoro, io sono un marziano con tre teste, quattro braccia, cinque occhi… per non parlare della coda di plastica, del naso di metallo appuntito e delle orecchie di cerapongo (e trascuro il fatto che so volare e dipingere col pensiero).
Quello che avevo da dire l’ho detto. Anzi, aggiungo una postilla: se non date l’Oscar ad Angelina (che ha pure fatto film orribili e recitato male ma qui è trasfigurata come un angelo, nel ruolo della vita) vengo a Los Angeles e spacco tutto!


lunedì 17 novembre 2008

Il paese delle meraviglie

Ad Alice…
“Non c'era troppo da meravigliarsene, né Alice pensò che fosse troppo strano sentir parlare il Coniglio, il quale diceva fra se: “Ohimè! ohimè! ho fatto tardi!” (quando in seguito ella se ne ricordò, s'accorse che avrebbe dovuto meravigliarsene, ma allora le sembrò una cosa naturalissima): ma quando il Coniglio trasse un orologio dal taschino della sottoveste e lo consultò, e si mise a scappare, Alice saltò in piedi pensando di non aver mai visto un coniglio con la sottoveste e il taschino, nè con un orologio da cavar fuori, e, ardente di curiosità, traversò il campo correndogli appresso e arrivò appena in tempo per vederlo entrare in una spaziosa conigliera sotto la siepe. Un istante dopo, Alice scivolava giù correndogli appresso, senza pensare a come avrebbe fatto poi per uscirne.”
L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

giovedì 13 novembre 2008

Si può fare

L’influenza è in arrivo. “La fidanzata di papà”, nuovo triste esempio di film prenatalizio di Boldi e compagnia, in attesa del natalizio e cristiandesicano “Natale a Rio de Janeiro”, sbarcherà domani nei cinema italiani con un numero di copie mostruoso. Per vaccinarvi contro l’idiozia spacciata per cinema, vi suggerisco di andare a vedere, e di fare vedere ai vostri amici, “Si può fare”, intelligente e divertente commedia di Giulio Manfredonia su una cooperativa sociale di ex pazienti di ospedali psichiatrici, ambientato negli anni ’80 subito dopo la riforma Basaglia che ha chiuso i manicomi, dando una possibilità di reinserimento sociale a queste persone considerate dai più “matti”. I veri matti sono quelli che, anziché andarsi a vedere questo delizioso film – interpretato da attori bravissimi e carico di umorismo e profondità – decideranno autolesionisticamente di sprecare due ore della loro esistenza (pagate per giunta) andando dietro ai filmetti natalizi di cui sopra. Il fatto è che il film di Manfredonia è stato distribuito in pochissime copie e non ha avuto alcuna pubblicità. Perciò l’unica possibilità che ha di essere visto è il passaparola. Difficile? Sì, ma io dico che “si può fare”. Perciò vi esorto a darvi una mossa per aiutarlo.
Una piccola chicca: ho assistito alla proiezione della pellicola a Trieste. Oltre al cast era presente lo sceneggiatore, il quale – a proposito del titolo – ha detto: “Ho depositato la prima stesura della sceneggiatura alla SIAE nel 2001, e già allora si intitolava “Si può fare”. Se fossi stato in America, avrebbero detto che ho anticipato il motto di Obama. Siccome sono in Italia, mi hanno accusato di aver copiato Veltroni.”

mercoledì 5 novembre 2008

Yes, we can

“Se c'è qualcuno là fuori che ha ancora dei dubbi sul fatto che l'America sia un posto in cui tutto è possibile, che dubita che il sogno dei nostri padri fondatori sia ancora vivo, che si interroga sul potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto una risposta.
È la risposta di giovani e anziani, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, bianchi e neri, ispanici e asiatici, gay e eterosessuali, disabili e non… Gli americani hanno lanciato un messaggio al mondo: non siamo mai stati soltanto un insieme di individui o un insieme di stati blu e di stati rossi. Siamo e saremo sempre gli Stati Uniti d'America…

Diamo vita a un nuovo spirito di patriottismo, di responsabilità, dove ciascuno di noi si impegna a lavorare di più, e occuparsi non soltanto di noi ma anche del prossimo… In questo paese noi cadiamo e risorgiamo come una sola nazione, un unico popolo. Dobbiamo resistere alla tentazione di tornare alle divisioni e all’immaturità che hanno avvelenato la nostra politica per tanto tempo…

Queste elezioni hanno avuto già molti primati e molte storie che saranno raccontate per generazioni, ma una che mi viene in mente questa sera parla di una donna che ha votato ad Atlanta. Come milioni di altri si è messa in fila per far sentire la sua voce in queste elezioni, con una differenza: Ann Nixon Cooper ha 106 anni.
È nata appena una generazione dopo la schiavitù, nel periodo in cui non c'erano macchine per le strade o aeroplani nel cielo; quando qualcuno come lei non poteva votare per due motivi - perché era una donna e per il colore della sua pelle. E quest'anno, in queste elezioni, lei ha toccato con il dito lo schermo, e ha votato, perché dopo 106 anni in America, attraversando i momenti migliori e le ore più buie, lei sa come l'America può cambiare…

Non ho mai avuto tanta speranza come questa sera qui con voi… E’ stato un percorso lungo. Ma questa notte, per quello che abbiamo fatto in questi giorni, in queste elezioni e in questo momento di definizione della nostra storia, il cambiamento è arrivato in America…

Anche se questa sera festeggiamo, sappiamo che le sfide di domani saranno le più grandi della nostra vita: due guerre, un mondo in pericolo, la peggior crisi finanziaria del secolo… La strada di fronte a noi è lunga, la scalata è ardua. Questo percorso non lo compiremo in un anno o in un mandato presidenziale, ma ce la faremo. Io vi prometto che insieme ce la faremo.

Sì, noi possiamo (Yes, we can).

Siamo arrivati fin qui. Abbiamo visto così tanto, ma c’è ancora molto da fare. Questa notte dobbiamo chiederci: se i nostri bambini vivranno abbastanza per vedere il prossimo secolo, se le mie figlie saranno così fortunate da vivere più di 100 anni, quali cambiamenti vedranno? Quali progressi avremo fatto? Adesso possiamo rispondere a questa domanda.
E’ il nostro momento. E’ il nostro tempo. E’ ora di ridare un lavoro alla gente, aprire le porte delle opportunità ai nostri ragazzi, ristabilire la prosperità e promuovere la pace. Far rivivere il sogno americano e riaffermare una grande verità: che, sebbene tanti, noi siamo uno solo. Che mentre respiriamo, speriamo. E quando ci scontriamo con il cinismo e i dubbi di quelli che ci dicono che non possiamo, risponderemo con quella infinita speranza che unisce lo spirito di un popolo:

Sì, noi possiamo (Yes, we can).

Grazie. Dio vi benedica e Dio benedica gli Stati Uniti d'America.”

Barack Obama, 44° presidente degli Stati Uniti d’America

lunedì 3 novembre 2008

Felipe Massa, il papà e la supermodella

E alla fine Felipe non ce l’ha fatta. Ha perso il mondiale per due curve di troppo. Quelle che hanno consentito a Hamilton di superare Glock e arrivare quinto, conquistando quei quattro punti decisivi per mantenere la testa della classifica. Nel GP più emozionante dell’anno, il miracolo non è accaduto, anche se per un paio di giri sembrava lì, ad un passo. Ma in questa carambola di emozioni fortissime che hanno accompagnato la folla di Interlagos e i telespettatori da casa, emerge il montaggio alternato dei due box inquadrati nei momenti decisivi della corsa. Da una parte (box Ferrari) veniva inquadrato il papà di Massa, viso paonazzo e cuore in gola. Dall’altra (box McLaren), la fidanzata di Hamilton, star musicale col fisico da supermodella.
Il Papà e la Supermodella.
Nulla di casuale, se si pensa ai due piloti che si sono giocati il titolo iridato.
Hamilton è figo. Hamilton è strafottente. Hamilton è un predestinato. Baciato dal talento, sin da ragazzino ha dimostrato di poter vincere le corse con una facilità e superiorità imbarazzanti. Non per niente, al primo anno in F1 ha sfiorato il titolo, vincendolo la stagione successiva. Impulsivo, sicuro di sé, spesso al centro di polemiche (per i suoi atteggiamenti in pista al limite del lecito e l’innegabile fortuna che accompagna il suo talento.) Ecco chi è Hamilton.
Massa è piccolo. Massa è umile. Massa non è mai stato considerato il migliore. Ha sempre dovuto lottare per conquistarsi ogni pole, ogni gran premio, ogni chance di vittoria. Considerato il secondo di Schumacher prima, il secondo di Raikkonen poi, ha visto i suoi compagni di squadra vincere il mondiale. E a lui sono rimaste sempre le briciole. Generoso, discreto, amato da tutti (e non è un caso che ieri tifavano tutti per lui: piloti, manager, spettatori). Ecco chi è Felipe.
Allora è logico che da una parte abbiamo il papà di Felipe, uomo dal grande cuore e dal viso rubicondo. Un padre che, ricoverato in ospedale nella settimana che precede la corsa decisiva del figlio, ammonisce l’infermiera: “Se non mi dimettete prima di domenica, salto dalla finestra e raggiungo il circuito a piedi”. Dall’altra parte invece abbiamo la star delle Pussycat Dolls, gruppo pop/dance americano: bellissima, truccatissima, famosissima, ricchissima, inquadratissima.
E io sto con Felipe. Non sto con Felipe perché guida la Ferrari. Sto con Felipe a prescindere. Sto con lui che per la prima volta nella carriera ha avuto l’opportunità di vincere un mondiale, ha fatto di tutto per conquistarlo, è stato perseguitato dalla sfortuna (gran premi guidati in testa sin dall’inizio e persi a un giro dalla fine per la rottura del motore… gran premi già quasi vinti e persi per errori clamorosi dei meccanici) e alla fine l’ha perso per un solo punto, dopo aver surclassato l’avversario nell’ultima gara, stravincendo davanti alla propria gente mentre il rivale arrancava in cerca del quinto posto e lo raggiungeva solo alla penultima curva. Io sto con Felipe, i cui occhietti piangevano sul podio più amaro della carriera. Uno che forse non avrà più l’opportunità di vincere un mondiale. Perché Hamilton è fortissimo. Perché Raikkonen (campione l’anno scorso) quest’anno si è preso una vacanza ma il prossimo tornerà alla grande. Perché Alonso ha una voglia matta di venire in Ferrari e tornare ad essere il numero 1.
Hamilton ha vinto, a soli 23 anni. E vincerà ancora, perché il talento è fuori discussione. E’ un bravo ragazzo, è un pilota formidabile, ed è stato il più costante durante l’anno. Inoltre, a voler essere sinceri, il destino gli ha ridato quello che gli aveva tolto. Un anno fa arrivò all’ultima gara, in Brasile, con 7 punti di vantaggio su un ferrarista (Raikkonen) e perse il mondiale per un solo punto. Quest’anno è arrivato all’ultima gara, ancora in Brasile, con 7 punti di vantaggio su un ferrarista (Massa) e ha vinto il mondiale per un solo punto. Va bene così, direte. Sì, ma io tra il fighetto predestinato e l’umile piccoletto scelgo il secondo. Tra la supermodella e il papà scelgo il secondo. Tra chi ha vinto il mondiale e chi lo ha perso scelgo il secondo. Sto con Felipe, sempre e comunque. Sperando che l’anno prossimo…