domenica 28 settembre 2008

Lassù qualcuno lo ama

Se n’è andato a 83 anni il grande Paul Newman. Ogni parola è superflua. Mi piace ricordarlo elencando solo alcuni dei film che ha magnificamente interpretato nel corso della sua lunga carriera: da vedere e rivedere.

Lassù qualcuno mi ama (1956)
La gatta sul tetto che scotta (1958)
Lo spaccone (1961)
Nick mano fredda (1967)
Butch Cassidy (1969)
La stangata (1973)
L’inferno di cristallo (1974)
Il verdetto (1982)
Il colore dei soldi (1986)
Era mio padre (2002)

Che il cielo ti sia lieve, Paul…

sabato 27 settembre 2008

Cecità

E se la cecità diventasse una malattia contagiosa?
E si propagasse un’epidemia globale nel giro di pochi giorni?
E il governo mettesse in quarantena tutti i ciechi?
E poi i parenti dei ciechi? E gli amici dei ciechi?

Come al solito, dando una risposta affermativa a una domanda surreale, Josè Saramago costruisce una storia simbolica, metaforica, ma straordinariamente realistica. Fatta del sangue della vita vera ma rivestita della pelle di una sfrenata fantasia. Dove osservazione entomologa della realtà e sublime volo della fantasia si incontrano.
Cecità ci parla di quello che ognuno di noi può diventare in circostanze estreme. O meglio, di quello che ognuno di noi è (anche, non solo, ma anche): “In realtà deve ancora nascere il primo essere umano sprovvisto di quella seconda pelle che chiamiamo egoismo.
Ci parla della paura di morire: “Che dobbiamo morire, lo sappiamo sin da quando nasciamo, Perciò, in un certo senso, è come se già fossimo nati morti.
E ancor di più della necessità di guardare, ci parla della necessità di essere guardati, di avere accanto testimoni che confermino il nostro esserci nel mondo, qui ed ora: “Ci vedrò sempre meno, anche se non perderò la vista diverrò sempre più cieca di giorno in giorno perché non avrò più nessuno che mi veda.
Mentre il tempo scorre, seguendo coordinate che non sono le nostre, ma le sue: “E’ il tempo che comanda, il tempo è il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole della vita, la nostra.
E se “la virtù trova sempre degli scogli nel durissimo cammino della perfezione” nel romanzo di questo straordinario narratore ci sono pochissimi scogli. La scrittura scorre, limpida, tenace, mentre la nostra mente cerca di rifugiarsi da qualche parte, provando disperatamente a negare ciò che è. Ma gli occhi ci tradiscono, perché “degli occhi abbiamo fatto una sorta di specchi rivolti all’interno, con il risultato che, spesso, ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca.

mercoledì 24 settembre 2008

Come buttare una domenica mattina a Roma (parte prima)

Istruzioni ad uso e consumo dei turisti della capitale:

1. Decidere di fare una bella gita in battello sul Lungotevere dopo aver visto la pubblicità in più lingue presente sui monitor della Metro.

2. Collegarsi a Internet e accedere al sito apposito per controllare la disponibilità dei battelli.

3. Leggere le seguenti informazioni:
Orari servizio: ottobre - maggio 7,30-20,00; giugno-settembre 7,30-24,00; interruzione del servizio: 13,30 -15,30. Una partenza ogni 20 minuti.

4. Stampare le indicazioni del sito e seguirle alla lettera. Quindi…

5. Prendere la Metro Linea A direzione Battistini.

6. Fermarsi a Ottaviano. Scendere. Cercare la fermata del bus 32. Vedere il bus 32 passarti sotto il naso e non fare in tempo a salirci.

7. Aspettare il successivo bus 32 in piedi (nessuna panchina nelle vicinanze) per ventun minuti e trentaquattro secondi.

8. Prendere il bus 32 in direzione Tor di Quinto e scendere alla fermata De Bosis/Stadio Tennis.

9. Scendere le scale che conducono sulla banchina del Lungotevere. Approdare al punto di partenza del battello indicato nel sito. Vedere che non c’è nessuno. Trovare un gruppetto di persone che attende il battello. Invano.

10. Chiedere informazioni alle persone già presenti. Risposte: “Il battello non c’è!” “Nun se vede nessuno!” “Stamo qua da mezz’ora!” “E mo’ che famo?”

11. Trovare un foglietto di carta squallido attaccato a un’insegna con la scritta: “Il servizio è momentaneamente sospeso”.

12. Chiedere alla proprietaria del ristorante sul molo se il servizio è effettivamente sospeso. Sentirsi rispondere: “Qui fanno come gli pare. Ieri il battello non è passato alle 10, ma è passato a mezzogiorno. Oggi non si sa. Forse passa, forse no. E’ a sorpresa!”

13. Telefonare al numero indicato nel foglietto per chiedere informazioni. Sentirsi rispondere dalla signorina: “Non sappiamo nulla. Il battello può passare o non può passare. Non so che dirle.”

14. Attendere altri 10 minuti. Invano. Osservare immobili le anatre che sguazzano sul Tevere. Riprendere la strada per tornare alla Metro.


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martedì 16 settembre 2008

L'autografo impossibile di David Foster Wallace

Inizio subito col dirvi che sto per parlare di un morto. Uso questo termine con apparente leggerezza perché sono convinto che la morte sia un’invenzione né più né meno che la penicillina. David Foster Wallace non è morto, per intenderci, ha solo deciso di andare da un’altra parte, di lasciare questa vita che evidentemente riteneva insopportabile e fuggire via, lontano. Concordo col fatto che c’è modo e modo di lasciare. Lui non l’ha fatto salvando la vita a tre bambini che stavano affogando nel Tamigi. L’ha fatto impiccandosi a 46 anni nel suo appartamento di Los Angeles. Con questo non voglio giudicarlo, ma ammetterete che tra le varie opzioni ha scelto una delle più tristi. Se ancora non capite perché sto parlando di questo tizio che si è suicidato e non delle centinaia di altri che lo fanno quotidianamente, è perché non sapete chi è David Foster Wallace (uso il presente di proposito). Semplice: uno dei massimi scrittori americani contemporanei. Poi il fatto che a me piaccia a o meno è un altro discorso. Il punto è che DFW non potrà più scrivere libri, o se li scriverà lo farà per gli angeli del cielo e non per noi comuni lettori di questo pianetucolo di quart’ordine. E, soprattutto, non potrà più firmare autografi. Cosa c’entra questo adesso? C’entra, perché la storia che sto per raccontarvi è tanto macabra (a posteriori) quanto vera.

Facciamo un passo indietro: essendo vittima della “SCLO” (Sindrome Compulsava del Lettore Onnivoro), compro più libri di quelli che poi arrivo a leggere. Ergo: finito di leggere un libro passo a un altro, finito questo è pronto un terzo, e così via, in una spirale infinita, perché per ogni libro che leggo ne compro due, eccetera eccetera… Pur essendo metodico, non ho una lista predefinita dei libri che devo leggere. Nessuna scaletta, nessun vincolo. Così capita che finito di leggere un Eliade passo a un più leggero Connelly, poi mi butto su Fante e dopo mi bevo Pirandello, per poi mangiarmi un McEwan tra un Saramago e un Veronesi. Vado a naso, a secondo di quello che mi ispira il momento.

Ed è così che ho scelto, una settimana fa, di iniziare a leggere “Non buttiamoci giù” di Nick Hornby. Per chi non l’avesse capito è un libro che parla di suicidi. O meglio, di quattro aspiranti suicidi che si ritrovano sul tetto di un palazzo e anziché buttarsi giù iniziano a parlare, fino a quando gli passa la voglia di buttarsi (ammesso che abbiano mai avuto il coraggio per farlo). Ebbene, finito di leggere il romanzo, dovevo scegliere il prossimo. Non so perché, ma dopo un’agguerrita eliminatoria che ha visto vittime illustri (Follett, Tomasi di Lampedusa, Svevo) rimango indeciso tra due titoli, che si contenderanno il ruolo di “prossimo libro da leggere”. I due titoli sono:

Piccoli suicidi tra amici, di Arto Paasilinna
Infinite Jest, di David Foster Wallace

Non ha importanza stabilire quale libro ho scelto. Ha importanza sapere perché, tra le centinaia di libri a disposizione, ne ho scelto uno che parla di suicidi e uno scritto da un suicida (ovviamente al momento non sapevo che DFW in quelle stesse ore aveva deciso di impiccarsi; ma questo non cambia nulla). Se siete abbastanza sconvolti non avete ancora sentito questa: proprio in quei giorni mi metto a scrivere un racconto. Indovinate un po’ il tema: il suicidio di una persona celebre. Ora tenetevi forte. Il racconto l’ho intitolato: l’autografo di David Wallace. Il bello è che mentre pensavo a un nome per il mio personaggio suicida, mi è istintivamente venuto in mente questo. Suonava bene, non so perché. E non mi ha nemmeno sfiorato l’idea che bastasse aggiungere un banalissimo Foster per avere il nome di un famoso scrittore americano. In quel momento manco mi ricordavo dell’esistenza di DFW. Per la cronaca, alla fine del mio racconto il personaggio viene salvato da un tassista che gli impedisce di suicidarsi per permettere alla moglie di continuare a guardare il programma tv che conduce (e che non avrebbe più potuto condurre se si fosse suicidato). DFW invece non è stato salvato da nessun tassista. Certo era difficile, essendosi ucciso in casa. Forse se decideva di andarsi a buttare da un ponte… Fatto sta che c’è da andare al manicomio. Ovviamente non credo nelle coincidenze. Altrettanto ovviamente non so se questa storia abbia un senso. So solo che tutto ciò mi fa sentire più vicino a David, ovunque sia in questo momento. Ed è strano aprire le pagine del suo libro e leggere le sue parole sapendo che sono le parole di un morto. Ed è strano rileggere il mio racconto e pensare che David (Foster) Wallace non potrà più scrivere autografi.

Scrive Josè Saramago: “Uno scrittore finisce per avere nella vita la pazienza di cui ha avuto bisogno per scrivere.” Ecco, forse DFW non ha avuto questa pazienza. La pazienza di cercare nel pantano della vita il ramo invisibile a cui aggrapparsi quando anche l’ultima illusione di felicità sembrava essersi dissolta.

martedì 9 settembre 2008

Lettera a Michael Crichton

Caro Michael,
ho appena letto il tuo libro “Stato di paura”. Ora, a me piace andare subito al sodo. Perciò, senza convenevoli, ti dico subito: ma che cacchio ti è preso?
Voglio dire, non discuto le tesi affascinati che proponi nel romanzo: il catastrofismo che regna intorno all’argomento “surriscaldamento globale” non corrisponde a quella che è la realtà dei fatti. L’uomo è meno responsabile di quanto si pensi riguardo ai cambiamenti in atto. Dietro agli allarmismi e ai facili strilloni dei giornali sul cambiamento climatico in atto c’è una complessa strategia che ha un suo preciso scopo, quello di farci vivere nella paura. Tutto molto interessante.
Allora dove sta il problema?
Il problema sta nel fatto che i dati che hai raccolto e che mostri, le tesi che enunci, le argomentazioni che porti, andavano benissimo per un saggio. Tu invece, essendo un narratore, le hai trapiantate in un romanzo. Tutto bene, dirai tu, tranne il fatto che il romanzo è scritto proprio male. Non cito nemmeno la parola letteratura, perché di quella non c’è traccia, ma qui siamo dalle parti della narrativa da discount. Passi per la trama confusionaria, in cui i personaggi (troppi) si spostano da un continente all’altro e già dopo 30 pagine non si capisce più una mazza. Passi per le descrizioni sommarie dei luoghi (alla Dan Brown). Passi per la trama a dir poco inverosimile con catastrofe finale sfiorata. Passi pure per le solite 583 (!) pagine, sappiamo benissimo che la sintesi non è tra le tue doti. Ma lo stile, la profondità, la leggerezza, dove sono? Personaggi piatti di cui ti scordi i nomi e che non ispirano nessuna identificazione. Colpi di scena che si susseguono talmente ravvicinati da annullarsi a vicenda. Frasi trite e ritrite almeno quanto l’espressione che ho appena usato (appunto la frase “frasi trite e ritrite” è una frase trita e ritrita). Banalità in scala industriale. E alla fine cosa rimane? La tesi, solo la tesi. Appunto: non l’intreccio, non i personaggi, non la scrittura… ma il messaggio. E per recapitare il messaggio bastava un saggio. Invece tu hai inserito il saggio all’interno di un polpettone inverosimile e indigesto di pessima narrativa. Intendiamoci, niente di peggio di un qualsiasi best seller clonato che trovi a 6 euro in un supermercato di Miami, ma molto al di sotto della tua fama.
Come diceva un personaggio di non so quale storia: “Scusa se ti dico queste cose, ma non te le direi se non ti amassi.” E’ valsa comunque la pena leggere il tuo romanzo, perché dice cose interessanti anche se le dice male. Forse è pur sempre preferibile una bella idea enunciata da un balbuziente piuttosto che una pessima idea proclamata da un retore. Ma il lettore esigente che è in me sentiva il bisogno di sfogarsi, e le esagerazioni del suo sfogo sono dovute al troppo amore per la letteratura. Spero che non te la prenderai troppo, ci sentiamo quando leggo il tuo prossimo romanzo.