domenica 28 gennaio 2007

Inno alla vita

La vita è un’opportunità, coglila.

La vita è bellezza, ammirala.

La vita è beatitudine, assaporala.

La vita è un sogno, fanne una realtà.

La vita è una sfida, affrontala.

La vita è un dovere, compilo.

La vita è un gioco, giocalo.

La vita è preziosa, abbine cura.

La vita è una ricchezza, conservala.

La vita è amore, godine.

La vita è un mistero, scoprilo.

La vita è promessa, adempila.

La vita è tristezza, superala.

La vita è un inno, cantalo.

La vita è una lotta, vivila.

La vita è una croce, abbracciala.

La vita è un’avventura, rischiala.

La vita è pace, costruiscila.

La vita è felicità, meritala.

La vita è... vita, difendila.

Madre Teresa di Calcutta

sabato 27 gennaio 2007

Il giorno della memoria

Si partì dunque il 31 maggio all'alba nei vagoni bestiame. Il convoglio era scortato da carabinieri e da tedeschi. Il comandante doveva aver ancora qualche parvenza di umanità, perché alla prima fermata d'oltre confine ci permise di tenere i vagoni con le porte in fessura; almeno si respirava un po'.

…In una stazione (credo Monaco) i vagoni con gli uomini vennero staccati (ed inviati a Dachau) e noi proseguimmo alla volta di Auschwitz. Al quinto giorno di viaggio, vennero a chiudere i vagoni e a sigillarli: si stava arrivando nella zona dei Lager, controllata dalle SS.

…Poco prima era arrivato un treno di ebrei ungheresi e sulla panchina erano rimasti gli ultimi: i vecchi e i non autosufficienti. C'era lì un camion e questi venivano presi per le braccia e per le gambe e gettati sul camion tra grida di dolore e orribili tonfi. Quello che ci raggelò fu il vedere che questo tremendo compito era affidato a dei prigionieri.

…Poi, arrivate in una baracca, ci ordinarono di spogliarci ed il nostro pudore di farlo davanti ai soldati fu ben presto vinto dalle violente bastonate che cominciarono a volare. Ci distribuirono dei vestiti provvisori. A me toccò un pastrano da uomo con una grande stella gialla e, mettendo le mani in tasca, trovai una pipa con un borsellino di tabacco.

…Ci introdussero in una baracca che sulla soglia aveva una vaschetta piena di liquido disinfettante o disinfestante, nella quale bisognava mettere i piedi prima di entrare. Ora mi suona così ironico quel procedimento, come quello di raderci tutti i peli e di rapare quelle che avevano qualche lendine di pidocchi, quando poi nel campo imperversavano il tifo, la dissenteria, le cimici e i pidocchi! Ci fecero fare la doccia calda ma brevissima tanto che molte di noi uscirono con i capelli ancora pieni di sapone e così rimasero tutto il giorno perché di acqua, fredda o calda che sia, neanche a parlarne. Poi, sempre nude, ci fecero attendere per delle ore, finalmente poi arrivarono i vestiti.


…Poi in un'altra baracca per la «timbratura», cioè il tatuaggio del numero e la consegna dello stesso numero che dovevamo cucire sulla manica del vestito, assieme al triangolo, rosso per noi «politiche».

…Incominciammo la giornata lavorativa subito. Ci portarono in una parte del Lager dove c'era una strada agli inizi di costruzione. Alle più giovani e alte affidarono delle mazze per rompere la pietra, le altre dovevano spalare il terreno e portare le pietre da rompere. La kapò che ci prese in consegna era una tedesca e dal triangolo rosso capimmo che era una prigioniera politica.

…A mezzogiorno distribuivano il pranzo che consisteva in una ciotola di zuppa e dopo mezz'ora si tornava al lavoro. Per i primi giorni, dovemmo sorbirla senza posate.

…Comunque tornando alla giornata in Lager, alle cinque di sera si finiva il lavoro e poi in fila alla baracca per l'ulteriore appello, quasi sempre più lungo del mattino. Era esasperante, affrante com'eravamo dal durissimo lavoro della giornata ed affamate, dover stare qualche ora ferme sull'attenti e guai a parlare, altrimenti schiaffoni e calci.

…Ho avuto la sventura di conoscere il «Revier» o infermeria. Vi sono stata accompagnata perché febbricitante (avevo 40°). Per il momento non c'era posto, ma aspettai poco perché appena morta una ricoverata mi dissero di occupare quel letto (ovviamente senza cambiare materasso e di lenzuola neanche parlarne). Riuscii almeno a girare il materasso, mi diedero una polverina (un antipiretico?) e lì fui lasciata fino all'indomani. Quando vennero le infermiere per misurarmi la febbre approfittai di un loro momento di distrazione, per vedere e, visto che avevo 38°, scossi il termometro fino a 36°. Dissi che ero sfebbrata e che potevo tornare al lavoro. Ero terrorizzata all'idea di trascorrere ancora una notte in quell'allucinante girone infernale, tra urla e lamenti, che avevano poco di umano, ormai. E poi avevo paura di rimanere perché avevo sentito che spesso e volentieri lì dentro si effettuavano vari esperimenti.


…Ricordo che un giorno fui prelevata per andare a trainare la botte che trasportava le fognature del «Revier». Bisognava andare a vuotarla sopra i letamai, sistemati lontano dal campo. Là vidi un gruppo di prigionieri che doveva spargere il letame sopra quello che avevamo portato. Dal numero sul vestito capii che erano ebrei italiani.

…dopo, quando ci allontanammo, mi voltai e vidi che li stavano bastonando e loro continuavano a muoversi come spinti da forza d'inerzia e non sentivano più neanche le bastonate.

…Poi le infami selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare ed il medico (non sempre era un dottore, a volte anche un semplice SS) con un cenno le ridistribuiva in due file ed era chiaro quale era la fila da eliminare! Le donne destinate a quelle file non si davano a smaniare o a disperarsi. Quasi tutte vi andavano come inebetite, in silenzio e quel silenzio era più tremendo di qualunque pianto. Gli aguzzini avevano raggiunto il loro scopo: era bestiame da macello, vi andava senza protestare.

…Talvolta alla sera c'era il «Lagersperrer» cioè l'ordine di ritiro nelle baracche. Lo facevano quando avevano da eliminare le occupanti di una intera baracca e noi non dovevamo vedere quelle donne attraversare il campo ed uscire dalla parte dei crematori. Alla notte avevi il riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si sprigionavano dai camini. Così fu eliminato un intero campo di zingari. In una notte furono uccisi centinaia di nomadi. Di questi si parla pochissimo e ciò mi indigna, c'è del razzismo nel fatto di ignorare che anche queste popolazioni sono state perseguitate e che fanno parte dell'olocausto.

…Dopo poche settimane del nostro arrivo cominciò a farsi sentire in modo cronico la fame fino al punto che eri già disposta a prenderti qualche bastonatura per arrivare a ripulire i mastelli della zuppa.

…non avevano un etto di carne addosso, camminavano lentamente e parlavano con una vocina appena udibile, con le gambe rigate dai loro escrementi che ormai non potevano trattenere.

…Da qualche indiscrezione sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz perché il fronte sovietico stava avanzando e questo ci rese anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi l'infame portone con la scritta «Arbeit mach frei». Bene, mi dissi, forse ora ce la faremo.

Testimonianza di Ondina Peteani, deportata ad Auschwitz

venerdì 26 gennaio 2007

Il porto delle nebbie

Ieri sera ho avuto la grazia di rivedere “Il porto delle nebbie” (Francia, 1938), magnifico film di Marcel Carné. Ambientato nei pressi del porto di Le Havre, racconta la storia di Jean, un disertore, aiutato a nascondersi da un vagabondo e da un artista di strada, osteggiato da un ricettatore e da un delinquente vigliacco, innamoratosi di una povera e bellissima ragazza e condannato dal fato avverso a una fine tragica.

Marcel Carné, nato nel 1909 e figlio di un ebanista, dopo la scuola iniziò a lavorare in una società di assicurazioni. Poi la sua passione per il cinema prevalse. Diplomatosi all’école technique de photographie et de cinéma, iniziò a fare il critico cinematografico. Poi lavorò in pubblicità e fu assistente alla regia di Jean Renoir. Divenuto regista firmò molti capolavori. A fine carriera, nel 1976, filmò un documentario sui mosaici del Duomo di Monreale. Morì quasi novantenne nel 1996.

Il porto delle nebbie” costituisce una delle vette della collaborazione di Carné con Jacques Prévert, poeta e scrittore. I loro film appartengono alla categoria del cosiddetto “realismo poetico”. La scrittura poetica e realistica di Prévert e la regia decadente e romantica di Carné si sposano alla perfezione. Oltre a questo film gli altri due capolavori della coppia sono “Alba tragica” (Le jour se lève, 1939) e “Amanti perduti” (Les enfants du Paradis, 1945)

Di Jacques Prévert Piero Bianchi ha scritto: “è un romantico, un uomo del 1830 smarrito nelle periferie delle moderne città industriali.”
Nella sua sceneggiatura, adattata dal romanzo “Le quai des brumes” di Pierre MacOrlan, spiccano i dialoghi, di una tagliente ed efficace bellezza.
In una delle prime scene un barbone abituato a vivere per strada si rivolge a Jean dicendo:

Il mio sogno è di dormire una volta sola in mezzo a delle lenzuola. Dico in un letto vero, con un lenzuolo sopra e uno sotto.”

In un mondo in cui i nostri sogni sono popolati di Maserati e apparizioni televisive, forse converrebbe riflettere sul fatto che ancora oggi c’è chi sogna un letto su cui dormire, cosa di cui noi usufruiamo senza capirne l’importanza e la fortuna.

Poco più avanti, Jean viene accolto in una bettola. Innervosito si arrende all’evidenza e ammette di avere fame. Rivolgendosi al proprietario che gli offre da mangiare dichiara:

Quando si ha fame si dovrebbe dire: ho fame, e tutto si aggiusterebbe. E invece si sta zitti per orgoglio.

Memorabile il primo incontro con Nelly (Michele Morgan).

Jean le dice: “Un uomo e una donna non possono capirsi. E’ impossibile. Non parlano la stessa lingua.

E Nelly risponde: “Forse non possono capirsi, ma possono amarsi.

Freud applaude ancora oggi dalla tomba.

E poi il dialogo tra l’artista e Jean:

ARTISTA: “Voi amate la vita?”
JEAN: “Si. Per quanto ci siano dei giorni…”
ARTISTA: “E la vita vi ama?”
JEAN: “Finora è stata un po’ carogna con me ma… forse cambierà dato che a me piace.”

Jean è interpretato da Jean Gabin (vero nome Jean-Alexis Moncorgé). Jean Renoir lo definì “l’attore con la A maiuscola.”
Nato nel 1904, figlio di una cantante e di un attore di varietà, fu cresciuto dalla sorella in campagna. Abbandonò gli studi a 15 anni per fare l’operaio e il magazziniere, finché il padre non gli procurò un ingaggio come comparsa in un film. Da allora non si fermò più, e arrivò a recitare in una novantina di pellicole. Tra gli altri interpretò anche il ruolo dell’ispettore Maigret, creato dalla penna di Georges Simenon.
Probabilmente Jean Gabin è il mio attore preferito dopo James Stewart. Se dovessi scegliere cinque film tra i capolavori interpretati opterei per: La grande illusione, L’angelo del male, Il porto delle nebbie, Alba tragica e Grisbi.
Gabin morì il 15 novembre 1976 per un attacco cardiaco. Assecondando le sue ultime volontà il suo corpo fu cremato e le sue ceneri gettate in mare aperto, al largo di Brest, in Bretagna.
Immagino Jean nell’attimo della sua morte. Lo immagino di fronte allo specchio, pronto ad abbandonare questa vita per l’ignoto. E immagino che ripeta le parole scambiate con Michele Morgan nel film di Carné.

JEAN: “Dove stai andando?”
NELLY: “Non lo so.”
JEAN: “Allora andiamo dalla stessa parte.”

giovedì 25 gennaio 2007

Lo sciopero della morte

Qualsiasi gesto, qualsiasi azione, qualsiasi parola è condizionata dall’atavica paura della morte.

Noi sappiamo che oggi siamo qui e ora, ma sappiamo anche che un domani non saremo più, non saremo più ciò che ora siamo ma qualcosa di diverso.

Ogni secondo ci avvicina alla morte e ci toglie un pezzetto di vita.

E noi non capiamo, non vogliamo capire, lottiamo furenti e orgogliosi contro l’invisibile disegno di cui ci sentiamo vittime.

L’uomo che non ha mai avuto paura di morire non è uomo, non è creatura, non è niente. Chiunque convive o ha convissuto o convivrà prima o poi con l’inevitabile certezza di non abitare in eterno il proprio corpo e la propria esistenza terrena, e con il conseguente angoscioso terrore che la segue, può capire.

E allora, nei sogni senza prezzo che ci visitano come nebbie mattutine, possiamo sognare che un giorno, per un qualche accidente del caso, la morte, questa odiata temuta riverita morte, entri in sciopero e ci lasci in pace.

Già. E se la morte scioperasse?

Se nessuno morisse più… Nessuno.

Se l’oscura mietitrice si dimenticasse del suo compito secolare per farsi una bella vacanza in mondi lontani e inaccessibili, lasciandoci le nostre vite, giovani o vecchie, belle o brutte che siano, ma pur sempre vite?

Cosa accadrebbe all’umanità? Cosa accadrebbe a un’umanità in cui nessuno muore, si vive in eterno, la popolazione aumenta a dismisura e i becchini perdono il lavoro?

Ponendosi questa domanda, e dandosi mille risposte, il Premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto il romanzo “LE INTERMITTENZE DELLA MORTE” (2005, Einaudi editore).

Lucido, surreale, profondo, magnifico.

Uno dei rarissimi capolavori della letteratura contemporanea, che inizia così:

“Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò agli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pur che si trattasse di un solo caso per campione, che forse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con tutte le sue prodighe ventiquattr’ore, fra diurne e notturne, mattutine e vespertine, senza che fosse intervenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato.”

A tutti coloro che hanno avuto almeno una volta paura della morte, e cioè a tutti gli esseri umani, consiglio di proseguire la lettura recandosi nella libreria più vicina.

mercoledì 24 gennaio 2007

La paura del fallimento

La paura del fallimento è uno degli ostacoli più ardui da superare per approdare alla meta cui siamo destinati.
Se abbiamo un talento (anzi, scusate, cancellate l’affermazione precedente, poiché tutti hanno un talento…).
Siccome abbiamo un talento, ce l’abbiamo per uno scopo. Perciò l’unico modo per non manifestare il nostro talento e non farlo fruttificare è pensare di non averlo. Infatti la mancanza di fiducia nelle nostre capacità crea una visione pessimistica della realtà che inevitabilmente condurrà al fallimento. Ovviamente noi attribuiremo il fallimento non alla nostra visione distorta della realtà, ma alla nostra mancanza di capacità o talento.
Per talento intendo virtù, e non occorre eccellere in qualche strana e particolare attività per capire di possedere delle virtù. Ancor più appropriato del termine virtù sarebbe il termine vocazione. Pur ammettendo che tale termine presupponga una visione più spirituale della vita, lo adotto trovandomi più a mio agio con le sue implicazioni.
Ecco, mettiamola così: tutti noi abbiamo una vocazione. C’è chi ha la vocazione al sacerdozio, e chi ha la vocazione al matrimonio. C’è chi ha la vocazione del genitore, e chi ha la vocazione del missionario. C’è chi ha la vocazione per il potere e chi per l’anonimato, c’è chi ha la vocazione per la musica e chi per il teatro. Citando Hesse, c’è chi ha la vocazione per il pensiero e l’ascesi (Narciso) e chi per l’arte e la vita errabonda (Boccadoro).
Ognuno di noi è chiamato a diventare qualcuno, è proiettato verso una destinazione naturale (non mi soffermo a discutere sull’atavica questione tra predestinazione e libero arbitrio, sennò si fa notte!) cui può aderire solo nell’istante della consapevolezza. Conoscere la propria vocazione (anzi, le proprie vocazioni) è una benedizione. Il problema nasce quando ci troviamo nell’inconsapevolezza o quando sbagliamo certe valutazioni su noi stessi. Allora dovremmo porci degli interrogativi seri a riguardo:

Se sono arrivato al quarto divorzio, forse non avevo la vocazione al matrimonio.

Se mi pesa maledettamente osservare le regole di castità, obbedienza, povertà della Chiesa, forse devo riconsiderare la mia vocazione al sacerdozio.

Se ho abbandonato mio figlio e sua madre fuggendo all’estero e ora chiedo alla mia nuova compagna di far abortire il frutto del nostro amore, forse non ho la vocazione del genitore.

Se ogni sera quando finisco di cantare al piano-bar la gente mi fischia, nonostante io voglia arrivare a Sanremo, forse la mia vocazione al canto è una mia illusione.

E’ importante capire la propria vocazione, scoprire i propri talenti, far crescere le proprie virtù. E non arrendersi mai, perseverare sempre, far emergere l’enigmatica e misteriosa fonte di splendore custodita nel fondo delle nostre anime.
In ogni campo, da quello sociale a quello affettivo, da quello religioso a quello politico, da quello sportivo a quello artistico, il fallimento può essere un’occasione di riscatto per chi crede nelle proprie capacità, e un efficace vaccino contro un’eventuale prossima caduta.
Non dobbiamo avere paura del fallimento, ma ricordarci che tutti possono fallire, come dimostrano gli esempi sotto elencati (sono solo alcuni tra centinaia di migliaia):

Ludwig Van Beethoven maneggiava con difficoltà il violino. Il suo insegnante lo definiva senza speranza come compositore.

Walt Disney fu licenziato da un direttore di giornale per mancanza di idee. Fallì molte volte prima di costruire Disneyland.

Albert Einstein fu definito “mentalmente ritardato” dal suo insegnante. Fu espulso dalla scuola e gli venne negata l’ammissione al politecnico di Zurigo.

Henry Ford fallì e si ridusse al verde cinque volte prima di avere finalmente successo.

Winston Churchill fu bocciato in prima media. Divenne primo ministro a 72 anni.

Diciotto case editrici rifiutarono a Richard Bach il racconto Il gabbiano Jonathan Livingston. Pubblicato finalmente nel 1970, in cinque anni vendette sette milioni di copie soltanto negli Stati Uniti.

Babe Ruth, considerato dagli storici il miglior giocatore di Baseball di tutti i tempi, detiene anche il record di eliminazione dopo tre strike.

martedì 23 gennaio 2007

Riabituarsi alla meraviglia

Oggi è martedì. Non è meraviglioso?

E’ gennaio. Non è meraviglioso?

Non piove, ma le nuvole si rincorrono nel cielo. Non è meraviglioso?

La gente lavora, qualcuno dorme. Non è meraviglioso?

Una formica sta attraversando il mio giardino. Non è meraviglioso?

La radio è accesa e trasmette musica. Non è meraviglioso?

Prima di oggi c’è stato ieri e dopo di oggi ci sarà domani. Non è meraviglioso?

Un fiocco di neve sta per appoggiarsi su un ramo di un albero norvegese. Non è meraviglioso?

Qualcuno ha appena finito di mangiare. Non è meraviglioso?

Un anziano inglese sta raccontando per la prima volta alla sua nipotina la fiaba di Cappuccetto Rosso. Non è meraviglioso?

Il mare c’è. Non è meraviglioso?

William Shakespeare è esistito. Non è meraviglioso?

Il vento sta accarezzando l’erba di un prato nel sud della Nuova Zelanda. Non è meraviglioso?

Le lancette dell’orologio scorrono. Non è meraviglioso?

Oltre il sistema solare, a milioni di anni luce di distanza, brillano altre stelle. Non è meraviglioso?

Il gatto del vicino sta facendo le fusa. Non è meraviglioso?

Un bambino sta guardando per la prima volta un film di Alfred Hitchcock. Non è meraviglioso?

Miliardi di persone, in questo istante, esistono contemporaneamente. Non è meraviglioso?

Io sto scrivendo parole. Non è meraviglioso?

Voi state leggendo le stesse parole. Non è meraviglioso?

Per un attimo siamo in sintonia, nel tempo e nello spazio. Non è meraviglioso?

lunedì 22 gennaio 2007

Amici di carta

Gli amici si vedono nel momento del bisogno. Un mio carissimo amico ha bisogno di me in questo momento, e voglio fare appello alla vostra attenzione per poterlo aiutare.

L’amico in questione non è un essere umano, ma una rivista. E tuttavia la rivista medesima è fatta di esseri umani, quindi il concetto non fa una grinza.

Sto parlando di FilmTV.

Trattasi dell’unico settimanale di cinema in Italia.

Già il fatto che in un paese che ha alle spalle una storia culturale pari a nessun’altra, e una storia cinematografica straordinaria, esista un solo settimanale di cinema, è scandaloso. Il fatto poi che questo settimanale, assolutamente magnifico, rischi di chiudere per sempre a causa di problemi editoriali e di vendite, dovrebbe indignarci non poco. Ed il sentimento primario che provo è esattamente codesto: l’indignazione! Sono indignato del fatto che giornaletti pseudopornografici, riviste scandalistiche buone solo per sostituire la carta igienica nei momenti di bisogno, ignobili pattumiere del gossip e della disinformazione travestite da giornali seri, incontrino il favore del pubblico e vendano milioni di copie, mentre una rivista come FilmTV sia costretta a non uscire in edicola (per la prima volta nella sua storia) la prima settimana di gennaio, e non possa garantire i futuri numeri da qui a fine anno.

Le migliaia di lettere ed e-mail d’affetto che hanno sommerso la redazione del giornale testimoniano come gli “amici” di FilmTV siano tanti e affezionati. Non è un caso che chi si sia imbattuto in un numero di FilmTV poi non l’abbia più abbandonato.

Cosa posso fare io per aiutare il mio amico in questi tempi nefasti? Posso farlo conoscere a coloro che hanno la sfortuna di non conoscerlo.

FilmTV è molto più di un settimanale di cinema e televisione. E’ scritto con passione e competenza da gente che ama il suo lavoro e rispetta il pubblico. Contiene una ricchezza di contenuto (e anche di forma) invidiata e invidiabile.

E’ chiaro che il suo principale campo di discussione sia il cinema. E per gli amanti del cinema FilmTV è una manna, poiché è vicino alle esigenze sia del cinefilo esperto sia del comune spettatore, contenendo: recensioni mai banali e sempre puntualissime, anticipazioni sui futuri progetti cinematografici, omaggi ai grandi del passato, approfondimenti e servizi sui film in uscita nelle sale…

E poi ancora troverete: la rubrica “Lost Highway” (Piccole storie di cinema) che ripercorre la carriera di registi, attori e produttori o fa il punto su un particolare aspetto dell’arte cinematografica; la sezione “CineTracce” che aggiorna su festival, manifestazioni e rassegne cinematografiche; la rubrica “CineDVD” che recensisce con competenza e minuziosità tutte le uscite in dvd; la “collezione grande cinema” di Gianni Amelio, con in regalo la locandina di un grande film del passato e approfondimenti su di esso curati dallo stesso regista. E molto, molto altro ancora…

Ma il bello di FilmTv è che non parla solo di cinema! Prima ancora di essere una rivista cinematografica, infatti, è una rivista culturale.

E allora funge anche da settimanale televisivo:

Contiene tutte le recensioni e i giudizi su tutti i film che verranno trasmessi la settimana successiva! E nello “Spazio tv” anticipa tutti i programmi, le serie televisive, le fiction, gli eventi, sia della tv in chiaro sia della tv satellitare.

Contiene la rubrica “Vita da cani”, in cui il critico televisivo Gualtiero De Marinis parla con straordinaria ironia e mirabile competenza di tutto ciò che fanno in tv. (Questa rubrica da sola vale l’intero prezzo della rivista).

Si alternano poi di settimana in settimana rubriche di letteratura (“CineLibri”), di musica (“CineMusica”), di cultura (“GoffGoff”), di attualità (“Il cassonetto”), per non parlare del sempre pungente editoriale curato dal direttore Emanuela Martini, degli interventi brillanti di Morando Morandini (il decano dei critici italiani), delle locandine dei film in uscita, dei programmi della radio e della filodiffusione, delle statistiche sugli incassi settimanali dei film, della rubrica sui dvd d’importazione introvabili in Italia, dello spazio dedicato ai lettori (che possono scrivere al giornale e pubblicare opinioni), del mercatino che consente di pubblicare richieste per “scambiare, vendere, comprare oggetti e idee di cinema”)…

E tutto questo senza perdere di vista la semplicità e l’immediatezza, l’intelligenza e l’arguzia, consci che il cinema e l’arte in generale possa essere un punto di vista che ci permetta di capire il mondo, e poterlo cambiare in meglio.

FilmTV esce ogni martedì in edicola (salvo, e qui gli scongiuri si sprecano, ulteriori problemi). In alcune parti d’Italia arriva il mercoledì (e in pochissime zone il giovedì).

Costa la miseria di 1,50 euro.

Se volete imbarcarvi su questa splendida barchetta che non è sostenuta da nessun grande potere politico ed economico (e per questo rischia d’affondare) ma soltanto dall’affetto dei lettori, accomodatevi pure; vi ho riservato un posto d’onore.

Con affetto, un amico di FilmTv.


IL SITO DI FILMTV



domenica 21 gennaio 2007

Beatitudini a confronto

I veri cristiani (e cioè circa il 10% di chi si professa cristiano) sono pazzi agli occhi del mondo. Devono esserlo, perché tutto ciò che ha insegnato loro Gesù è esattamente l’opposto di tutto ciò che ha insegnato loro la società.

Esemplare a tal proposito è “Il discorso della montagna”, in cui Cristo, rivolto alle folle, elenca le beatitudini di coloro i quali decideranno di seguire il suo esempio.

Riflettendo sulle regole non scritte che la nostra società ci impone, ho formulato un parallelo “discorso della montagna” contrapponendo alle beatitudini del Vangelo secondo Matteo le beatitudini del “Vangelo secondo il mondo” (tra parentesi).

Questo è il risultato:


Le beatitudini eterne

dal Vangelo secondo Matteo 5, 3-12


(Le beatitudini terrene

dal Vangelo secondo il mondo)



Beati i poveri in spirito,

perché di essi è il regno dei cieli.


(Beati i ricchi in materia,

perché di essi è il regno del consumismo.)



Beati gli afflitti,

perché saranno consolati.

(Beati i superbi,
perché saranno allietati dal superfluo.)


Beati i miti,
perché erediteranno la terra.

(Beati i furbi,
perché erediteranno il potere.)


Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.

(Beati quelli che hanno fame e sete della gloria,
perché saranno saziati dalla loro vanità.)


Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.

(Beati gli egoisti,
perché faranno carriera a spese dei misericordiosi.)


Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.

(Beati i disonesti,
perché vedranno più denaro.)


Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.

(Beati i fomentatori di guerre,
perché saranno chiamati eroi.)


Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.

(Beati gli impostori che aggirano la giustizia,
perché la faranno franca.)


Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno
e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi
per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande
è la vostra ricompensa nei cieli.

(Beati voi quando vi esalteranno, vi glorificheranno
e, ipocritamente,
diranno ogni sorta di bene su di voi.
Rallegratevi ed esultate, perché grande
è la vostra ricompensa in società.)

sabato 20 gennaio 2007

Invenzioni rivoluzionarie

Psssssttt…
Quello che sto per dirvi è strettamente confidenziale. E’ per questo che ve lo sussurrerò senza alzare troppo la voce.
Sono appena fuggito da un laboratorio scientifico nascosto nelle profondità delle montagne.
Hanno appena inventato tre sensazionali apparecchi tecnologici che rivoluzioneranno la vostra vita quotidiana!
Ci avevano obbligato a tacere per altri tre mesi, perché devono ancora perfezionare l’esperimento prima di divulgare la notizia all’umanità. Ma io ho ritenuto che tre mesi fossero troppi, e così sono sfuggito ai rigidi controlli del laboratorio e ho deciso di comunicarvi in anteprima mondiale la notizia.
Voi, fedeli lettori del mio blog, tra poco sarete i primi esseri umani (oltre gli scienziati) a conoscere l’importanza delle nuove invenzioni.
Ed ora avvicinatevi…
Siete abbastanza vicini da udire la mia voce? Bene. Allora ascoltate:
La prima straordinaria invenzione, che sarà disponibile entro breve tempo nelle vostre case, si chiama…

TELECOMANDO

Questo rivoluzionario aggeggio vi permetterà di cambiare canale, standovene comodamente sdraiati sul divano!
E’ finita l’epoca in cui eravate costretti a sorbirvi “Ballando con le stelle” o “La prova del cuoco”.
Finalmente potrete cambiare canale! Sarete liberi di vedere altri programmi!
Basterà premere i pulsantini colorati del vostro telecomando e il gioco sarà fatto!
Non vi lamenterete più del fatto che siete costretti a vedere cose che non vi piacciono perché non avete alternativa. Ora l’alternativa c’è, e si chiama TELECOMANDO!
Non è fantastico?

Ma se credete di avere sentito tutto, vi sbagliate di grosso.
Gli scienziati hanno inventato un altro rivoluzionario aggeggio che renderà meravigliosa la vostra esistenza. Si chiama…

VIDEOREGISTRATORE

Questa incredibile invenzione vi permetterà, udite udite, di registrare qualsiasi programma a qualsiasi ora!
Basterà che vi muniate di una videocassetta (ora non posso spiegare nel dettaglio come funziona, ma fidatevi) e potrete registrare anche i film che vanno in onda alle 5 del mattino o il programma preferito che vi perdevate perché eravate al lavoro!
Così non vi potrete più lamentare del fatto che i programmi migliori vanno in onda solo a tarda notte o alle prime luci dell’alba.
Sarete VOI a decidere il vostro palinsesto! Potrete registrare un programma che va in onda a tarda notte e rivederlo l’indomani mattina, o all’ora di pranzo.
Potrete vedervi Milonga Station alle otto di mattina e i film di Fuori Orario alle nove di sera!
E’ veramente incredibile!

Ma se pensiate che abbia finito, vi sbagliate.
Ecco a voi l’ultima invenzione. Si chiama…

BOTTONE ON/OFF

Grazie al bottone On/Off potrete (sembra fantascienza, ma sarà presto realtà) spegnere il vostro televisore quando vorrete.
Ebbene sì, non sarete più costretti a tenerlo acceso anche mentre siete a pranzo. Non sarete più costretti a tenerlo acceso anche mentre russate sul divano. Non sarete costretti a tenerlo acceso anche mentre state parlando con vostra moglie/marito o mentre siete nell’altra stanza o mentre lavate i piatti o mentre andate in bagno.
Potrete spegnerlo! (finalmente non vivremo più nel mondo orwelliano dei televisori accesi di 1984).
E se lo spegnerete, non vi accadrà nulla. Non morirete. Non vi dissanguerete. Non vi verranno le emorroidi. Non perderete la ragione.
Questa invenzione non ha alcuna controindicazione.
Non è stupefacente?

E ora che vi ho raccontato tutto, fatene buon uso. Gioite, perché tra breve queste mirabolanti invenzioni saranno alla portata di tutti.
Ma ora vi devo lasciare. Sento bussare alla mia porta. Forse sono gli sbirri. Forse sono gli scienziati. Mi hanno scovato! Mi hanno beccato! Mi arresteranno per aver rivelato queste informazioni! Sono spacciato, è finita!
Se per caso terranno per sé la notizia di queste scoperte, per potere controllare le vostre menti e aiutarvi a pensare solo quello che loro vogliono che voi pensiate, ricordatevi di me e delle mie parole. Ora è giunto il tempo di scappare. Addio, amici miei. Addio…

venerdì 19 gennaio 2007

Skizopolis - II

NEWS DAL MONDO DI SKIZOPOLIS

Il ministro dell'economia di Saturno è rimasto sbalordito nel leggere le dichiarazioni dei redditi degli abitanti di un paesucolo di Skizopolis (chiamato Italietta).
Dopo aver valutato le cifre, ha chiesto lumi al suo fido segretario personale, un gatto persiano di nome Boh, che si esprime a monosillabi ma è un dattilografo formidabile.
Alla domanda: "Ma sono veri i dati forniti da questa gente?", il gatto ha risposto: "Boh!"
Allora il ministro ha telefonato al senatore Yesterday (noto fan dei Beatles), il quale ha risposto, con velata aria di rimprovero:
"Mai sentito parlare di EVASIONE FISCALE?"
"No," ha detto il ministro, "l'unica evasione che conosco è quella di Clint Eastwood dal carcere di massima sicurezza di Alcatraz!"

Allorché il senatore ha cercato di spiegare al ministro che nel paese di Skizopolis un cittadino può dichiarare meno (a volte anche meno della metà!) di quello che guadagna, in maniera tale da imbrogliare lo stato ed evadere il fisco, pagando meno tasse di quelle che gli spettano.
Sbalordito, il senatore ha rassegnato le dimissioni immediatamente, per manifesta ingenuità. Sapeva che la disonestà è uno dei vizi più noti degli schizzatumani, ma non credeva si potesse arrivare a questo punto.

Il vostro inviato, sempre in prima linea per recapitarvi notizie sensazionali da Skizopolis, vi offre ora i seguenti dati.

ATTENZIONE!
I dati sotto elencati possono provocare bruciori di stomaco e incontrollabili istinti omicidi.

Secondo i dati della dichiarazione dei redditi dell'anno 2005, riguardanti 50 categorie di lavoratori autonomi operanti nel territorio italiano, I GIOIELLIERI GUADAGNANO MENO DEI MAESTRI ELEMENTARI!!!

In Sicilia i gioiellieri e i titolari di bar dichiarano meno dei maestri elementari a inizio carriera (che prendono in media 21.500 euro annui).

In Calabria i gioiellieri dichiarano 11.990 euro. Nel Lazio 14.652 (meno di un metalmeccanico e degli imbianchini del Veneto). I gioiellieri della Toscana invece guadagnano quanto i falegnami della Liguria.

In Piemonte, Lazio e Campania, se ci dovessimo attenere alle dichiarazioni dei redditi fornite, un metalmeccanico guadagna di più di un proprietario di salone per la vendita di automobili.

In Campania un dentista dichiara di guadagnare meno di un poliziotto (25.000 euro).

I tassisti del Molise, i sarti della Puglia, i parrucchieri in Campania, i titolari di autosaloni di Bolzano e i rivenditori di ricambi auto in Lombardia, guadagnerebbero meno di un pensionato sociale (che arriva sì e no a 500 euro al mese).

In Calabria ben 12 categorie (tra cui i pasticceri, i fotografi, i pastai) denunciano un guadagno annuo inferiore ai 6.700 euro.

I pasticceri della Valle d'Aosta dichiarano quattro volte di più (23.202 euro) dei pasticceri della Calabria (6.561 euro).

I pasticceri liguri guadagnerebbero più (20.274 euro) dei colleghi siciliani (14.412 euro).

In Lombardia i ristoratori (14.818 euro) e i titolari di bar (14.830 euro) dichiarano circa 13.000 euro in meno di un meccanico (27.000 euro) e meno della metà di un idraulico (31.224 euro).

Sempre in Lombardia il commerciante di auto (16.166 euro) è sotto di 10.000 euro rispetto al falegname (26.245 euro).

Nel Lazio gli agenti immobiliari, nonostante i prezzi esorbitanti delle case nella Capitale, hanno dichiarato 17.497 euro, cioè poco più di un operaio, e circa 10.000 euro in meno dei colleghi lombardi.

In molte regioni i pasticceri dichiarano di guadagnare meno di un operaio.

L'unico dato su cui tutte le regioni concordano è quello dei più ricchi.
La palma spetta a notai e farmacisti.

I notai dichiarano da 216.000 a 864.700 euro (sorbole!!!)
I farmacisti da 97.000 a 165.000 euro.


Per ragioni professionali, il vostro amato giornalista si astiene da qualsiasi commento, lasciando a lor signori l'ingrato compito di giudicare.


giovedì 18 gennaio 2007

Il Codice Da Vinci e il non lettore

Basta poco per capire la conoscenza letteraria di una persona. Ad esempio, domandarle qual è il suo romanzo preferito.
Un tizio cui è stata posta la domanda ha risposto: “Il codice Da Vinci”. La sua risposta mi dà la certezza quasi matematica che questa persona abbia letto dai tre ai sei libri in tutta la sua vita.
Perché? Ragioniamo.
Una persona che sia abituata a leggere, che ami la lettura e che abbia un minimo di conoscenza letteraria, avrà letto Dostoevskij, Pirandello, Wilde, Hesse, Balzac, Christie, Goethe, Flaubert, Conan Doyle, Dickens, Simenon, Kafka, Joyce, Tolstoj… (per citare alcuni nomi a caso).
Chi, avendo letto le opere immortali di questi grandi autori, preferisce loro “Il codice Da Vinci” di Dan Brown?
Ora, io non contesto il fatto che il libro di Brown possa piacere. Contesto il fatto che possa essere considerato da molte persone come “il libro preferito”!
Intendiamoci, il suddetto romanzo è scritto bene, si legge che è un piacere, è anche intrigante pur nella sua ostinata volontà di far apparire assolutamente vero ciò che è quanto meno implausibile. Ma ci si ferma qui, potendo elencare decine di romanzieri più bravi di Brown e decine di romanzi più appassionanti della sua fatica.
Anche se dovessimo paragonarlo ad autori contemporanei impallidirebbe al cospetto di Connelly, Lehane, King, Follett, Grisham, Crichton, Coe, Hornby, Baricco, Eco, Coelho, Ellroy… (tutti autori abbastanza “commerciali”).
C’è di più. La scelta del titolo non è affatto casuale. “Il codice Da Vinci” è il libro più venduto degli ultimi tre anni. Ha venduto milioni di copie. Tutti ne parlano.
Ecco dunque svelato l’arcano. La stragrande maggioranza di coloro che hanno comprato il libro di Brown fanno parte di quella diffusa cerchia di non-lettori o lettori occasionali, che comprano un libro all’anno, quando va bene.
Se dovessimo tracciare un identikit del non-lettore giungeremmo ai seguenti risultati.

Trattasi di individuo poco abituato a leggere, che ignora i grandi testi narrativi, classici e contemporanei, ed ha una preparazione culturale (circoscritta alla letteratura) limitata alle esigue esperienze scolastiche.

Quando tale individuo decide di comprare un libro, non acquista il romanzo dell’autore preferito (perché non ne ha) né si lascia guidare nella scelta da criteri artistici o critici. Non avendo infatti una preparazione ed una struttura culturale adeguata, e volendo andare sul sicuro, non può che lasciarsi guidare nella scelta da qualcun altro, o da qualcosa d’altro, quello che è il suo punto di riferimento culturale.
Il punto di riferimento culturale di tale individuo non può che essere la televisione, e in generale il mondo dei mass-media.
Avendo la televisione lo straordinario potere di soggiogare le menti di chi è facilmente influenzabile, gioco forza tale individuo sceglierà ciò che la televisione avrà scelto per lui (ma in tal caso si può ancora parlare di scelta?).
Se il tubo catodico non fa che parlare del “Codice Da Vinci” di Dan Brown, del fatto che ha battuto il record di vendite, del fatto che tutti devono comprarlo, del fatto che è il fenomeno editoriale dell’anno, e via discorrendo, l’individuo è invogliato a comprarlo, perché “va sul sicuro” poiché “segue la massa”.
A meno che non abbia la consapevolezza di avere un cervello, e non scopra la meravigliosa capacità di usarlo. E nell’usarlo si decida a scegliere un libro “che può piacere a lui” piuttosto di uno “che piace alla massa”.
(Per la cronaca, anch’io ho letto “Il Codice Da Vinci”, sennò non ne potrei parlare. Però me lo sono fatto prestare da una delle milioni di persone che l’hanno comprato.)
Ma torniamo a quella persona. Il fatto che per lei “Il codice Da Vinci” sia il romanzo preferito, oltre a denotare la sua scarsa familiarità con la lettura, denota anche il suo asservimento alla tirannia intellettuale dei mass-media e la sua dipendenza dal flusso omogeneo della massa, laddove per massa si intende un gruppo di persone, definibili anche col termine di pecore (senza offese per le persone, e per le pecore), che hanno deciso di perdere la propria individualità e la propria capacità di raziocinio.

Il riassunto logico del concetto è il seguente:

1)
Se io compro un libro all’anno voglio andare sul sicuro.
2)
Per andare sul sicuro seguo la massa.
3)
Se la massa compra “Il codice Da Vinci” io comprerò “Il codice Da Vinci”.
4)
Avendo letto altri tre libri nella mia vita (per i quali tra l’altro ho seguito lo stesso criterio di scelta) alla domanda “qual è il tuo romanzo preferito” non potrò che rispondere “Il codice Da Vinci”.

Tale criterio è applicabile anche al cinema e al non spettatore.
Ogni riferimento a chi va a vedere un solo film all’anno e sceglie “Natale a New York” (o a Ginevra o a Honolulu o a Canicattì…) non è puramente casuale.
Passo e chiudo.

mercoledì 17 gennaio 2007

Io, me stesso e la porta chiusa a chiave

A volte le più grandi verità sono così semplici che le rifiutiamo, o le ignoriamo, o le sottovalutiamo, proprio a causa della loro semplicità. Il detto popolare per cui si impara a stare bene con gli altri solo dopo che si è imparato a stare bene con se stessi, è una di queste verità. Talmente semplice nella sua linearità e consequenzialità logica da risultare quasi superfluo commentarla. Se mi accingo a farlo è perché noi poveri esseri umani nevrotici siamo tendenzialmente portati a complicare le cose e se siamo bravi a disquisire sulla complessità di una figura geometrica a cento metri di distanza, siamo meno bravi a descrivere un naso che si trovi a trenta centimetri dal nostro occhio (o un occhio che si trovi a trenta centimetri dal nostro naso).
Poiché proiettiamo sugli altri la nostra visione del mondo e il nostro intimo sentire (qui usato col significato di percepire) è evidente che se detestiamo noi stessi, detesteremo anche gli altri, se colpevolizziamo noi stessi colpevolizzeremo anche gli altri, se non abbiamo fiducia in noi non l’avremo negli altri, se non ci prendiamo sul serio non prenderemo sul serio gli altri, se non ironizziamo su noi stessi non ironizzeremo sugli altri (almeno non con la stessa ironia), se mentiamo a noi stessi tanto più mentiremo con gli altri.
Se io odio me stesso odio il mondo intero, perché io sono il mondo. In quanto io sono parte del tutto e la parte contiene il tutto (almeno secondo una certa visione filosofico-scientifica di cui sono sostenitore) odiare me significa odiare l’universo.

Pensiamo alla solitudine.
Quando io sto solo (e cioè quando nessun essere umano o animale oltre a me è presente nel raggio di dieci chilometri, o giù di lì) in realtà sono in compagnia. In compagnia di me stesso e (per chi ci crede) in compagnia di Dio.
Se non riesco a stare per più di mezz’ora in questa situazione, a convivere con la sola mia presenza senza avere il desiderio o il bisogno di uscire fuori e vedermi con qualcuno, soffro di una grave malattia:

L’INCAPACITA’ DI STARE BENE CON ME STESSO.

Se non so stare bene con me stesso, come potrò stare bene con gli altri?
Il rassicurante senso di sicurezza che mi dà la folla (il gruppo, la compagnia, la presenza altrui) è solo un’illusione creata dal mio cervello per celare la mia incapacità di relazionarmi seriamente con le altre persone.
Chi soffre di solitudine cronica è malato. Chi non sa stare da solo per più di mezz’ora è malato. Il guaio è che non sa di esserlo.
E’ come se sin dalla nascita camminasse con un sassolino nella scarpa (e non si togliesse mai la scarpa). Dato che il camminare con il sassolino è sempre stata una costante, non si accorge di averlo. Solo quando il sassolino viene rimosso e impara a camminare senza, si accorge della differenza.
Allo stesso modo chi è malato dalla nascita può rendersi conto della presenza della malattia solo nel momento in cui guarisce.
Vi siete mai chiesti perché i rapporti tra le persone (le amicizie, le relazioni sentimentali, i matrimoni…) durano spesso molto poco, molto meno di quello che avevamo previsto o sperato, molto meno di quanto un normale rapporto dovrebbe durare? La risposta non è negli altri, ma in noi stessi.

Dobbiamo chiuderci a chiave nella nostra stanza, e non aprire a nessuno. Dobbiamo isolarci, e imparare a stare da soli. Dobbiamo imparare a sopportare la nostra presenza, a conoscere le pieghe più profonde e invisibili della nostra anima. Dobbiamo imparare a convivere con le nostre paure e i nostri sogni, a tollerare la nostra voce. Dobbiamo parlare a noi stessi, e poi ascoltarci con attenzione, e ridere dei nostri difetti per poi cercare di correggerli, e imparare a memoria il nome e il cognome delle nostre virtù per poi metterle al servizio dell’umanità.
Dobbiamo guardarci, e amarci. E solo quando avremo imparato ad amare veramente noi stessi, potremo aprire la porta della nostra stanza e uscire fuori, incontrare gli altri esseri di questo mondo, e vivere con loro.

martedì 16 gennaio 2007

Vino d'annata

Molti hanno sottolineato il fatto che “Un’ottima annata” (A good year) sia la prima commedia del regista britannico Ridley Scott (classe 1937). In realtà Scott aveva già fatto un’incursione nel genere tre anni fa, dirigendo “Il genio della truffa” con Nicolas Cage. Semmai, è la prima volta che mette in scena una commedia dichiaratamente sentimentale, senz’altro l’opera più leggera che abbia mai realizzato.
Essendo il vino il protagonista virtuale del film, la distribuzione italiana ha fatto uscire “Un’ottima annata” per le feste natalizie, forse per permettere agli italiani di digerire con un buon bicchiere di vino rosso i vari cinepanettoni e cinepandori.
In realtà il vino è solo un pretesto per raccontare la solita storia dell’uomo cinico e arrogante che ha smarrito il fanciullino (pascoliano) che è in sé e che riscopre i veri valori della vita grazie all’amore per una donna sensibile e seducente che lo redime.
Il cinico in questione è Max Skinner, squalo mangiasoldi il cui habitat naturale è il mondo glaciale ed arrivista dei broker nella City di Londra. Raggiunto dalla comunicazione della morte dello zio Henry, nella cui tenuta in Provenza aveva passato gli anni più belli della sua infanzia, Max parte per la Francia per riscuotere l’eredità (la tenuta stessa, con tanto di vigna). Arrivato nel suo “posto delle fragole” (cioè il luogo dei ricordi), o per meglio dire “posto del vino”, si lascia pian piano sopraffare dalla vita placida e sincera della campagna, e collassa del tutto quando incontra un’affascinante francesina che gli scongela il cuore.
Tutto già visto e rivisto, direte. Sì, eppure…
Eppure il film è pervaso da una leggerezza, da un senso di sospensione, da una innocente semplicità che lo rendono irresistibile.
E poi Scott gira che è una meraviglia…
E poi Russell Crowe (che interpreta Max) è come al solito fantastico…
E poi i comprimari strappano il sorriso…
E poi a un certo punto, nella scena più romantica, si presenta Jacques Tati alias Monsieur Hulot…

E poi, soprattutto, appare lei.

Si chiama Marion Cotillard. Provare a descriverla sarebbe come cercare di spiegare a un cieco le sfumature dell’arcobaleno.
Di lei so soltanto che è nata a Parigi il 30 settembre 1975, ha studiato alla scuola di recitazione di Orléans, vincendo il primo premio del suo corso, e prima di approdare al cinema ha lavorato in televisione.
Lancio un appello ai familiari e agli amici di Marion. Se state leggendo queste righe, vi prego di darmi il suo indirizzo.
Prenderò il primo aereo per la Francia, per incontrarla di persona.
Mi basterà guardare i suoi occhi dal vivo per accertarmi che siano veri.
Le dirò “Enchanté, ma chérie” e aspetterò che mi sorrida…
dopo di che potrò andarmene felice.





lunedì 15 gennaio 2007

Anime danzanti

Vienna. Teatro di Porta Corinzia. 7 maggio 1824.

Entro in punta di piedi. Mi faccio strada lentamente, e i miei passi smuovono l’aria attraversata dal mormorio della gente. Saluto i signori, bacio le mani delle dame, m’inchino. Abiti lussuosi e luccichii, il teatro è vestito a festa.
Trovo il mio posto in platea. Misuro la distanza che mi separa dal palco, le cui sedie vuote saranno riempite dai musicisti tra meno di trenta minuti.
L’attesa cresce, si può quasi toccare con mano. Guardo le persone sedute accanto a me, e quelle lontane, e penso a quelle che non riesco a vedere. Siamo pochi viennesi baciati dal privilegio di essere qui. Qui e ora. Ora e qui. Nessun altro posto della Terra è preferibile a questo, perché tra poco verrà eseguita per la prima volta la nuova opera del maestro, la nona sinfonia di Ludwig van Beethoven.
Noi saremo i primi esseri umani ad ascoltarla, nessuno prima o dopo di noi (fuorché i musicisti e il maestro stesso) hanno avuto o avranno questo immenso onore. Noi terremo a battesimo la Nona. Noi saremo gli angeli della musica che accompagneranno la nuova creazione nel percorso faticoso dei secoli a venire. Ciò che ci accingiamo ad ascoltare è adesso a noi sconosciuto, ma tra qualche ora apparterrà alla nostra anima. Per sempre.


Palermo. Teatro Politeama Garibaldi. 14 gennaio 2007

Il primo movimento del direttore d’orchestra, quel bacio dato dalla sua bacchetta all’aria… è come se avesse toccato un punto preciso dell’aria, innescando la musica, che soave e magnifica scaturisce ora dagli strumenti dell’orchestra. Mi sembra quasi di vederla, la musica, di vedere un fluido privo di colore e di forma, senza odore né sostanza. Mi sembra quasi di vederla volteggiare nell’aria, formando fiumi eterei che si intrecciano come stelle filanti e si avvicinano a noi. Mi sembra quasi di toccarla, ma posso solo sfiorarne la superficie, accarezzarne l’estremità.
E poi guardo il direttore d’orchestra, e guardo i musicisti. E accade qualcosa di straordinario. Accade che le loro anime, ad una ad una, escono dai loro corpi in forma di fantasmi. E salgono su, ormai liberate dalla forza di gravità. Salgono sulle nostre teste, e iniziano a danzare. Danzano accanto al loggione, danzano sospese sulla platea, danzano e si abbracciano tra loro, si scompongono in atomi invisibili per poi ricongiungersi in forme sempre nuove. E mentre i loro corpi sono lì, mani tremanti sui violini, a dar vita alla nona sinfonia, loro s’arrestano per un istante eterno.
In piedi, nel punto più alto e remoto del teatro, hanno visto l’ombra di una figura conosciuta. Hanno visto l’ombra del maestro, hanno visto l’ombra di Beethoven. Se ne sta lì, a contemplare la sua opera, ad ascoltare ad occhi chiusi. Quando compose la Nona era ormai quasi completamente sordo. Alla prima esecuzione viennese si accorse del successo solo quando il soprano gli indicò la folla plaudente che lo acclamava. Solo dopo che lasciò il suo corpo poté ascoltare con precisione perfetta la sua ultima creatura. E da allora vola da teatro a teatro, da città a città, da continente a continente per benedire l’esecuzione della sua sinfonia. Ed ad ogni occasione è come se l’ascoltasse per la prima volta.
Le anime danzanti dei musicisti l’hanno visto, e invitandolo a seguirle riprendono ora a danzare. E ad ogni tocco di violino cambiano colore, e ad ogni colpo di trombone mutano aspetto, e quando il tenore intona il suo Inno alla gioia anche la sua anima si aggiunge alle sue sorelle, e insieme avvolgono il teatro di incantevole armonia. Finché anche la mia anima, come richiamata da un voce arcana cui non può resistere, lascia il mio corpo per un istante, e si unisce alla danza di gioia.
E io piango, perché il mio cuore è stato ridesto.
Piango, perché ho appena toccato Dio.

domenica 14 gennaio 2007

Umiltà

Umiltà: Sostantivo femminile.

Virtù per la quale l’uomo riconosce i propri limiti, rifuggendo da ogni forma di orgoglio, di superbia, di emulazione o sopraffazione.

Sentimento o atteggiamento di riverente sottomissione o di riservata modestia.

Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli


Umile nel contegno, più umile nel sentimento, umilissimo nella propria stima. Da nulla si poteva distinguere che questo principe di Dio aveva la carica di superiore, se non da questa fulgidissima gemma, che cioè era il minimo tra i minori. Questa la virtù, questo il titolo, questo il distintivo che lo indicava ministro generale. La sua bocca non conosceva alcuna alterigia, i suoi gesti nessuna pompa, i suoi atti nessuna ostentazione.

Pur conoscendo per rivelazione divina la soluzione di molti problemi controversi, quando li esponeva metteva innanzi il parere degli altri. Credeva che il consiglio dei compagni fosse più sicuro ed il loro modo di vedere più saggio. E affermava che non ha lasciato tutto per il Signore, chi mantiene il gruzzolo del proprio modo di pensare. Infine, per sé preferiva il biasimo alla lode, perchè questa lo spingeva a cadere, la disapprovazione invece lo obbligava ad emendarsi.

Tommaso da Celano, dalla “Vita seconda di San Francesco d’Assisi”

sabato 13 gennaio 2007

Cronache dal pianeta Terra

Era un pomeriggio sonnacchioso come tanti altri. E come molti altri stavo rincitrullendo davanti a quella scatola cubica posta al centro del mio salottino borghese piccolo piccolo.
Lì per lì non feci caso al rumore che proveniva dal giardino. In fondo si era trattato solo di un boato gigantesco seguito da terrificanti e prolungate scosse telluriche e dalla parziale distruzione della parete est del salotto medesimo.
Ma io stavo beatamente seguendo le disquisizioni esistenziali dei personaggi di Maria De Filippi. Ero dunque troppo assorto per avere percezione della realtà che andava oltre il confine della mia poltrona.
Sennonché dopo qualche secondo di silenzio un gigantesco calcinaccio si staccò dal soffitto precipitando senza paracadute sul mio nuovissimo tv color 24 pollici. E tutto ciò proprio mentre Genoveffa stava per confessare ad Ermenegildo che la sua avventura con Romeo era stata solo una “divagazione genitale” e non una “scelta neuronale” come qualcuno del pubblico aveva insinuato.
Arrabbiato e collerico (come ogni italiano a cui un calcinaccio distrugge il televisore), mi diressi in giardino per constatare l’entità dei danni.
Ed ecco apparire davanti ai miei allibiti occhi una specie di disco volante (ogni disco infatti è per definizione “volante”) posizionato nel bel mezzo della mia aiuola preferita, quella dei gelsomini.
Come nei migliori film di fantascienza lo sportello si aprì e vidi uscire un omuncolo di 70 centimetri scarsi, il quale con naturalezza si sedette sul mio prato e si mise a fumare un sigaro cubano.
Mi avvicinai con circospezione all’alieno, e stavo per chiedere qualcosa di banale del tipo: “Ma da che pianeta vieni?” quando lui mi anticipò chiedendomi: “Che ore sono?”
“Le tre e mezza del pomeriggio,” gli risposi.
“Che cos’è il pomeriggio?”, mi domandò.
Mi sentii improvvisamente come i concorrenti di “L’eredità” o “Chi vuol essere milionario?”. Forse dalla mia risposta sarebbe dipeso il futuro del pianeta Terra. Tremai di paura. E stetti in silenzio.
“Non importa,” mi fece lui, tranquillizzandomi. “Io mi chiamo
Arial Garamond Latha Trebuchet 34587 Sing Tau Green. Per gli amici semplicemente Arial. Piacere di conoscerti.”
Quello che seguì è troppo arduo da raccontare. Mi limito a dire che ospitai Arial nel mio appartamento.
E’ qui ormai da sei mesi, e sembra essersi ambientato alla vita terrestre. Tuttavia a volte il mio amico alieno trasecola di fronte a notizie apprese da quotidiani o telegiornali. La vita nel suo pianeta è molto diversa dalla vita terrestre.

Continua…

venerdì 12 gennaio 2007

La romanza di Tosca e l'invidia dello spettatore

Ieri sera mi trovavo al Teatro Massimo di Palermo per assistere alla Tosca (1900) di Giacomo Puccini (Lucca 1858 – Bruxelles 1924), per la regia di Gilbert Deflo e la direzione di Pinchas Steinberg.

Le luci si smorzano, il vociare indistinto diventa mormorio, il mormorio si appiattisce in flebile sussurro. Gli ultimi telefonini vengono spenti, gli ultimi (o quasi) colpi di tosse vengono dati. L’orchestra è già disposta. Flauti da una parte, oboi dall’altra. Due fagotti qui e quattro corni lì. Arpa e tamburo, tromboni e corno inglese.

Le luci si spengono. Entra il maestro, e giù i primi applausi. L’orchestra è pronta, le braccia tese, le mani sudate, il cuore accelera i suoi battiti. Permane un bisbigliare fastidioso. Qualcuno invita cortesemente al silenzio con un classico sssssssttt!

Tutto tace.

Il maestro impugna la sua bacchetta e con un secco, rapido colpo, dà il via alla musica.

Il sipario si apre, la scenografia si manifesta. Lo spettacolo ha inizio.

Avrei voluto continuare, parlarvi del I Atto, parlarvi di emozioni e sentimenti, di morte e di amore, di Scarpia e di Cavaradossi. Ma son costretto a ripiegare su ben più meschino argomento. Il pretesto me l’ha dato l’episodio sconcertante e indicativo avvenuto nel bel mezzo della rappresentazione. E di questo ora vi parlo.

Siamo a metà del secondo atto. Il soprano (Tosca) ha appena finito di cantare la celebre romanza “Vissi d’arte”. E’ il momento più alto della seconda parte dell’opera, ed è senza dubbio il momento più importante per il soprano.
Lei è stata brava (forse non è stata la migliore interpretazione nella storia universale del teatro dei cinque continenti, ma è stata brava).
Partono gli applausi spontanei del pubblico.
Quando gli applausi finiscono, il direttore d’orchestra è pronto a far ripartire la musica.
Ci sono cinque secondi di silenzio.
Al sesto secondo, accade l’imprevisto.
Un signore del palco, nel silenzio generale, con tono sprezzante urla ad alta voce al soprano:

“Potevi fare meglio!”

Cala il gelo. Un silenzio assoluto piomba sul teatro e attanaglia palcoscenico e spalti in un’unica morsa letale.
Dieci secondi dura quel silenzio. Dieci secondi di sconcerto, di attesa, di pensieri.
Il silenzio si prolungherebbe all’infinito se non intervenisse un evento direttamente proporzionale alla causa del silenzio stesso. Un deus ex machina che risolvesse la delicata questione permettendo all’opera di ripartire.
Quell’evento accade.
Allo scoccare dell’undicesimo secondo, il direttore d’orchestra si rivolge al tizio che aveva espresso pubblicamente il suo dissenso e con tono stentoreo gli rammenta ad alta voce:

“E’ facile criticare da là!”

Scatta l’applauso del pubblico.
E’ un applauso caldo, sincero, scrosciante. E’ un applauso rivolto non tanto al direttore d’orchestra, cui va la nostra ammirazione, ma al soprano, cui va il nostro sostegno morale. Un applauso lungo, che è uno schiaffo metaforico a quel signore privo di tatto e di eleganza.
Il soprano recepisce quell’affetto. Ringrazia con i gesti delle mani, coprendosi poi il volto per trattenere le lacrime. Ed è lì, in quel preciso momento, in quell’istante empatico della commozione altrui, che noi abbandoniamo le nostre sedie di spettatori per raggiungere, seppur coi nostri spiriti invisibili e non coi nostri corpi prigionieri della gravità terrestre, il palcoscenico. Ora siamo accanto a lei, siamo accanto all’artista bisognosa del nostro sostegno, del nostro appoggio di spettatori e di esseri umani.
Quell’applauso è stato un fuoco, acceso dalla scintilla del direttore d’orchestra (eletto insidacabilmente a mio eroe personale) che ha alimentato il furore e la calma necessari al soprano per continuare a recitare.
Terminato l’applauso, il silenzio. Terminato il silenzio, tornata la musica. Il secondo atto atto è ripreso, come se non fosse successo nulla. Ma qualcosa era successo.

Torniamo indietro. Torniamo a quei fatidici dieci secondi.
Stavolta non guardiamo la questione dal punto di vista di noi spettatori, ma simuliamo un balzo felino che ci proietti sul palcoscenico. E non limitiamoci a stare accanto al soprano, ma cerchiamo di diventare il soprano, di perderci all’interno dei suoi pensieri, di immedesimarci nell’unicità della sua anima.
Quella frase rivolta dallo sconosciuto non è stata solo una semplice mancanza di rispetto, di tatto, di sensibilità. E’ stata una pugnalata al cuore, una deliberata e agghiacciante umiliazione pubblica.
Dietro un’interpretazione (e qui non stiamo parlando di un saggio scolastico di fine anno, ma della Tosca di Puccini) ci sono anni di sacrifici, di rinunce, di prove, di estenuanti ore passate a imparare, a migliorarsi, a cercare di varcare l’invisibile linea di demarcazione tra l’interpretare un ruolo e il vivere un ruolo. Dietro c’è passione, c’è orgoglio, c’è un cuore che batte.
E poi, dopo sangue sudore e lacrime, dopo ripide salite e porte in faccia, ti ritrovi lì, sul palcoscenico, a dover superare l’ansia della prestazione e la paura del pubblico. Devi fermare le tue mani che vorrebbero tremare. Devi trovare dentro di te la calma necessaria e la concentrazione perfetta. Devi spogliarti di te stesso per diventare un altro (Stanislavskij) o estraniarti dall’altro al punto da guardarlo dall’esterno (Brecht). Devi offrire la tua anima nuda a centinaia di persone che hanno pagato per vederla. E non puoi sbagliare, non puoi fallire, non puoi simulare. Devi essere perfetto/a.
E sei lì, alla metà del secondo atto. E’ il tuo momento. E’ il tuo grande momento.
Stai cantando “Vissi d’arte, vissi d’amore…”. E in quel “Vissi d’arte” c’è tutta te stessa. In quel “Vissi d’arte” c’è una dichiarazione autobiografica, un futuro testamento spirituale, una verità che travalica confini e barriere. In quel “Vissi d’arte” c’è tutta la tua vita di soprano e di artista, di attrice e donna.
E quando hai finito e sei arrivata alla cima della montagna, ecco che uno di quegli sconosciuti a cui hai dato l’anima ti butta giù con tre parole.

Tre parole scaturite da che cosa? Mancanza di educazione, arroganza, esibizionismo…
La questione è molto più complessa. Forse il tizio si è voluto fare bello davanti alla sua ragazza, o ha voluto dimostrare la sua indiscussa (per lui) competenza critica. Ma, molto più banalmente, la sua frase al vetriolo è scaturita da una latente invidia; la classica invidia che l’uomo comune prova nei confronti dell’artista. In verità questa invidia è mal riposta, poiché l’artista è anch’egli un uomo comune che ha scoperto di avere un talento e lo ha manifestato. L’uomo comune in genere è invece un tizio che non sa riconoscere il proprio talento e, dunque, si ritiene inferiore all’artista.
Ma l’idraulico che fa il suo lavoro con straordinaria competenza e infallibile affidabilità, è un artista nel suo lavoro. Il medico che non sbaglia mai una diagnosi e unisce alle conoscenze acquisite un formidabile intuito è un artista nel suo campo. Il genitore che sa educare i propri figli a vivere la vita anziché limitarsi ad attraversarla è un artista anch’egli.
Solo che questi artisti non ricevono applausi alla fine delle loro performance.
Mentre gli attori, i registi, i pittori, gli scrittori, i musicisti, gli scultori, sì.
Ecco allora l’invidia. Ecco allora il risentimento. Ecco pensieri del tipo:

“Vorrei essere nei tuoi panni. Non mi sento inferiore a te, razza di fortunato incompetente!”
Impotenti di fronte al talento altrui, ci vendichiamo esercitando il potere che da sempre ogni spettatore ha sull’artista: il dissenso manifesto. Ma confondiamo il diritto di dissentire con la pretesa di umiliare.
Alcuni artisti hanno il privilegio di poter essere insultati solo dopo che hanno completato la loro opera.
Esempio: a me non può capitare che, mentre scrivo un romanzo, un tizio piombi a casa mia dicendomi: “Fai schifo, un cane scrive meglio di te. Vai a lavorare in miniera invece di sprecare il tuo tempo a sentirti un novello Proust!
Ma ad un attore questo privilegio non è concesso.

Per la cronaca, l’opera è andata avanti regolarmente fino alla conclusione del terzo e ultimo atto. Gli applausi finali si sono protratti per vari minuti.
Sono uscito dal teatro rimuginando questi pensieri.
Fuori la vita e le auto scorrevano con la consueta frenesia.
Ho alzato lo sguardo verso l’alto.

E lucevan le stelle




giovedì 11 gennaio 2007

Possessori di cervello e serate televisive

Le sere trascorse in casa, per molti di noi, sono spesso fonte di noia e rassegnazione. Le prime serate televisive propinano fiction uguali a se stesse e programmi inguardabili (con le dovute e rare eccezioni). In compenso si è persa l’abitudine di passare le serate seduti in poltrona accanto al camino (o, per meglio dire, alla stufa) a leggere un buon libro. Io ho risolto il dilemma molti anni fa, quando ho fatto l’incredibile scoperta di possedere un cervello. In quanto possessore di cervello ho pensato che avevo la facoltà di decidere da me il mio palinsesto televisivo, anziché subirlo da altri. Così ho iniziato a vedere i film che volevo vedere usufruendo del videoregistratore (e oggi del lettore dvd).

Oggi me la passo decisamente bene. Da buon cinefilo onnivoro ho una videoteca con più di 2.000 film. Un buon centinaio (registrati nel corso degli anni o comprati in offerta in qualche mercatino dell’usato) non li ho mai visti. Così mi ritrovo la sera (quando sto a casa) a poter scegliere di vedere un film che non conosco per la prima volta o rivedere un film che amo per la seconda, terza, decima volta. Posso scegliere tra tutti i generi cinematografici (perché ho film di tutti i generi) e tra tutte le epoche (perché ho film dal 1902 a oggi).
Così magari una sera sono un po’ giù di morale e mi faccio risollevare da una commedia di Billy Wilder o Blake Edwards. Un’altra sera sono pervaso da dubbi filosofici e scelgo come compagno un film di Bergman o Tarkovskij. Un’altra sera voglio un po’ d’adrenalina e metto un horror o un film d’azione. Quando ho desiderio di leggerezza non c’è niente di meglio che un musical con Fred Astaire e Ginger Rogers o Gene Kelly. Poi ci sono le sere in cui prevale il mio inguaribile sentimentalismo, e allora ecco un mèlo di Douglas Sirk o una commedia romantica di Lubitsch. Se invece sono in vena di grasse risate ci sono sempre gli amici Totò, Jacques Tati, Buster Keaton, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio o Peter Sellers a darmi una mano. Se mi va di vedere un western ecco pronti Ford, Hawks, Leone. Se voglio viaggiare nella storia ho i kolossal di William Wyler e David Lean. Se voglio viaggiare nel tempo ricorro al mio genere preferito, la fantascienza. E se ho voglia di film recenti scelgo gli ultimi Spielberg, Weir, Mann, Burton, Eastwood.
Mentre voi poveri umani state lì a dover scegliere tra il nulla e il niente, io passo le serate in compagnia di Hitchcock, Kubrick, Dreyer, Welles, Truffaut, De Sica (padre).

Perciò, anziché lamentarvi che in televisione non fanno mai niente di interessante e scegliere il male minore, siate padroni delle vostre serate a casa. Se siete amanti del cinema registrate o comprate o noleggiate bei film, e guardateli. Se siete amanti della musica, passate le serate in compagnia di Mozart o Debussy o Chopin o (mamma mia…) Laura Pausini. Se vi piace leggere scegliete un romanzo e leggetelo. Se volete fare qualcosa con vostra moglie (o marito) fate l’amore, o giocate coi vostri figli, o parlate di ciò di cui volete parlare, o giocate a Monopoli. Non siate succubi delle emittenti televisive, ma scegliete voi come impiegare il vostro tempo, proprio perché è vostro. E così non mi verrete più a dire: “uffa, non c’è mai niente in televisione!”, per poi rassegnarvi a subire passivamente il puntatone finale di “C’è posta per te”.