martedì 16 settembre 2008

L'autografo impossibile di David Foster Wallace

Inizio subito col dirvi che sto per parlare di un morto. Uso questo termine con apparente leggerezza perché sono convinto che la morte sia un’invenzione né più né meno che la penicillina. David Foster Wallace non è morto, per intenderci, ha solo deciso di andare da un’altra parte, di lasciare questa vita che evidentemente riteneva insopportabile e fuggire via, lontano. Concordo col fatto che c’è modo e modo di lasciare. Lui non l’ha fatto salvando la vita a tre bambini che stavano affogando nel Tamigi. L’ha fatto impiccandosi a 46 anni nel suo appartamento di Los Angeles. Con questo non voglio giudicarlo, ma ammetterete che tra le varie opzioni ha scelto una delle più tristi. Se ancora non capite perché sto parlando di questo tizio che si è suicidato e non delle centinaia di altri che lo fanno quotidianamente, è perché non sapete chi è David Foster Wallace (uso il presente di proposito). Semplice: uno dei massimi scrittori americani contemporanei. Poi il fatto che a me piaccia a o meno è un altro discorso. Il punto è che DFW non potrà più scrivere libri, o se li scriverà lo farà per gli angeli del cielo e non per noi comuni lettori di questo pianetucolo di quart’ordine. E, soprattutto, non potrà più firmare autografi. Cosa c’entra questo adesso? C’entra, perché la storia che sto per raccontarvi è tanto macabra (a posteriori) quanto vera.

Facciamo un passo indietro: essendo vittima della “SCLO” (Sindrome Compulsava del Lettore Onnivoro), compro più libri di quelli che poi arrivo a leggere. Ergo: finito di leggere un libro passo a un altro, finito questo è pronto un terzo, e così via, in una spirale infinita, perché per ogni libro che leggo ne compro due, eccetera eccetera… Pur essendo metodico, non ho una lista predefinita dei libri che devo leggere. Nessuna scaletta, nessun vincolo. Così capita che finito di leggere un Eliade passo a un più leggero Connelly, poi mi butto su Fante e dopo mi bevo Pirandello, per poi mangiarmi un McEwan tra un Saramago e un Veronesi. Vado a naso, a secondo di quello che mi ispira il momento.

Ed è così che ho scelto, una settimana fa, di iniziare a leggere “Non buttiamoci giù” di Nick Hornby. Per chi non l’avesse capito è un libro che parla di suicidi. O meglio, di quattro aspiranti suicidi che si ritrovano sul tetto di un palazzo e anziché buttarsi giù iniziano a parlare, fino a quando gli passa la voglia di buttarsi (ammesso che abbiano mai avuto il coraggio per farlo). Ebbene, finito di leggere il romanzo, dovevo scegliere il prossimo. Non so perché, ma dopo un’agguerrita eliminatoria che ha visto vittime illustri (Follett, Tomasi di Lampedusa, Svevo) rimango indeciso tra due titoli, che si contenderanno il ruolo di “prossimo libro da leggere”. I due titoli sono:

Piccoli suicidi tra amici, di Arto Paasilinna
Infinite Jest, di David Foster Wallace

Non ha importanza stabilire quale libro ho scelto. Ha importanza sapere perché, tra le centinaia di libri a disposizione, ne ho scelto uno che parla di suicidi e uno scritto da un suicida (ovviamente al momento non sapevo che DFW in quelle stesse ore aveva deciso di impiccarsi; ma questo non cambia nulla). Se siete abbastanza sconvolti non avete ancora sentito questa: proprio in quei giorni mi metto a scrivere un racconto. Indovinate un po’ il tema: il suicidio di una persona celebre. Ora tenetevi forte. Il racconto l’ho intitolato: l’autografo di David Wallace. Il bello è che mentre pensavo a un nome per il mio personaggio suicida, mi è istintivamente venuto in mente questo. Suonava bene, non so perché. E non mi ha nemmeno sfiorato l’idea che bastasse aggiungere un banalissimo Foster per avere il nome di un famoso scrittore americano. In quel momento manco mi ricordavo dell’esistenza di DFW. Per la cronaca, alla fine del mio racconto il personaggio viene salvato da un tassista che gli impedisce di suicidarsi per permettere alla moglie di continuare a guardare il programma tv che conduce (e che non avrebbe più potuto condurre se si fosse suicidato). DFW invece non è stato salvato da nessun tassista. Certo era difficile, essendosi ucciso in casa. Forse se decideva di andarsi a buttare da un ponte… Fatto sta che c’è da andare al manicomio. Ovviamente non credo nelle coincidenze. Altrettanto ovviamente non so se questa storia abbia un senso. So solo che tutto ciò mi fa sentire più vicino a David, ovunque sia in questo momento. Ed è strano aprire le pagine del suo libro e leggere le sue parole sapendo che sono le parole di un morto. Ed è strano rileggere il mio racconto e pensare che David (Foster) Wallace non potrà più scrivere autografi.

Scrive Josè Saramago: “Uno scrittore finisce per avere nella vita la pazienza di cui ha avuto bisogno per scrivere.” Ecco, forse DFW non ha avuto questa pazienza. La pazienza di cercare nel pantano della vita il ramo invisibile a cui aggrapparsi quando anche l’ultima illusione di felicità sembrava essersi dissolta.

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