sabato 21 aprile 2007

I figli degli uomini

Uno dei film più sottovalutati (leggi: meno visti dal pubblico) della stagione è I figli degli uomini (Children of men) di Alfonso Cuaròn.

Tratto dal romanzo di P.D. James, il film è ambientato nella Londra del 2027. Da 18 anni non nascono più bambini a causa di una misteriosa infertilità. Gli asili e i parchi gioco sono abbandonati e in disuso, il più giovane abitante della Terra ha (appunto) 18 anni e non ha mai visto una donna incinta, i governi non sono riusciti a venire a capo del mistero.

Senza bambini non c’è futuro e senza futuro non c’è speranza. Così il mondo si è presto “lasciato andare”, tutto è decadente e fuori uso. Le città si sono trasformate in discariche abusive, le opere d’arte sono state distrutte e solo alcuni esemplari sopravvivono nelle mani di facoltosi miliardari, il degrado e la povertà dilagano ovunque, si moltiplicano i gruppi terroristici e gli attentati sono all’ordine del giorno. In questo caos cupo si trova immerso il disilluso Theo (Clive Owen), che sarà chiamato a interpretare la parte dell’eroe riluttante quando gli sarà affidata una missione: portare fuori confine una donna che, miracolosamente, è incinta, e consegnarla a chi può proteggere lei e il suo bambino, unica speranza dell’umanità di sopravvivere all’estinzione.


Sorvolo su due questioni:


1) La ricostruzione del futuro di Children of men è quanto di meno futuristico ci si possa immaginare. E’ stata scelta la strada del realismo (e dello stile quasi documentaristico) e tale scelta si è rivelata vincente: il mondo tra vent’anni non sarà un lussuoso luna park abitato da macchine volanti e persone vestite alla star trek, ma un fatiscente teatro simile alla periferia di Beirut.


2) La regia di Alfonso Cuaròn è straordinaria. I movimenti di macchina, la bellezza delle inquadrature, i piani-sequenza quasi “impossibili” realizzati con tecniche all’avanguardia, lo stile di racconto fluido e armonico, la messa in scena meticolosa e realistica, il movimento impresso alla storia… e la scelta di attori di primo livello.


Quello che più mi interessa, tuttavia, non è tanto il “testo”, ma il “contesto”. Non ciò che nel film appare in primo piano (l’intreccio, i protagonisti) quanto quello che c’è sullo sfondo. E sullo sfondo appare evidente il problema sociale. Nell’Europa del 2027 gli immigrati sono sistematicamente rispediti al mittente dopo essere stati rinchiusi in gabbie per animali e trattati come bestie. Quelli meno fortunati vengono uccisi. Tornare nelle loro terre significa comunque morire, perché il mondo è allo sfascio. Il governo invita i cittadini a denunciare i clandestini e consegnarli alle autorità (campeggiano centinaia di scritte in tal senso sui muri delle città), i posti di blocco sono uno dietro l’angolo. C’è chi si oppone a questa “chiusura” da parte del governo, ma l’unica arma che ha a disposizione è l’uso della forza. Assistiamo così a violenti scontri e ad attentati terroristici continui.

Ecco, la questione che appare evidente a chi gli occhi ce li ha e li usa (i primi sono molti, i secondi pochi) è che il futuro immaginato dal film non è una possibilità tra tante, ma è la più plausibile delle possibilità. Basta vedere cosa accade già oggi agli immigrati, a come viene trattato il problema dell’immigrazione, a quale fine fanno i clandestini che per sfuggire alla carestia o alla siccità o alle guerre civili si imbarcano su barche della speranza con cui (Caronte-traghettatore permettendo) tentano di raggiungere la salvezza sulle coste dei paesi ricchi. Che ci piaccia o no, l’emigrazione è un fenomeno destinato ad aumentare. E vista la “lungimiranza” dei governi occidentali, la loro inadeguatezza nell’affrontare il problema, e la tendenza dell’essere umano contemporaneo all’indifferenza nei confronti dell’altro e alla discriminazione nei riguardi del diverso, non è difficile immaginare che gli scenari futuri siano piuttosto foschi. Poi è chiaro che quando la misura è colma e le soluzioni alternative si rivelano inefficaci, l’uomo da sempre ricorre alla forza per risolvere i problemi. E la forza genera ancora più paura e diffidenza, e la paura genera altra violenza, e la violenza – alimentata dall’odio – non può che portare a lungo termine all’autodistruzione.

Chi pensa che queste tesi siano catastrofiste, appartiene alla folta schiera di coloro che si ostinano a giocare a fare i ciechi pur essendo dotati di occhi per guardare.

Children of men ha il merito di ricordarci che, oltre il nostro giardinetto piccolo borghese e pseudo moralista, c’è un mondo che si sta incamminando a passi svelti verso il baratro, e quello che oggi è un film di fantascienza domani sarà realtà se ognuno di noi non si sbraccia per cambiare lo status quo.

Non è un’impresa titanica cambiare il mondo. Basta cominciare da piccoli passi. Il primo è ricordarsi di vedere ciò che accade. Il secondo è prenderne coscienza. Il terzo è informare la gente su ciò che abbiamo visto, e invitarla a vedere.


Nota a margine: sullo splendido DVD del film (edizione a due dischi della Universal), si trova, tra le altre chicche, un documentario del regista che ha intervistato filosofi, critici e intellettuali sui temi sociali trattati dalla pellicola. Un’illuminante percorso di conoscenza e coscienza.








Nessun commento: