venerdì 12 gennaio 2007

La romanza di Tosca e l'invidia dello spettatore

Ieri sera mi trovavo al Teatro Massimo di Palermo per assistere alla Tosca (1900) di Giacomo Puccini (Lucca 1858 – Bruxelles 1924), per la regia di Gilbert Deflo e la direzione di Pinchas Steinberg.

Le luci si smorzano, il vociare indistinto diventa mormorio, il mormorio si appiattisce in flebile sussurro. Gli ultimi telefonini vengono spenti, gli ultimi (o quasi) colpi di tosse vengono dati. L’orchestra è già disposta. Flauti da una parte, oboi dall’altra. Due fagotti qui e quattro corni lì. Arpa e tamburo, tromboni e corno inglese.

Le luci si spengono. Entra il maestro, e giù i primi applausi. L’orchestra è pronta, le braccia tese, le mani sudate, il cuore accelera i suoi battiti. Permane un bisbigliare fastidioso. Qualcuno invita cortesemente al silenzio con un classico sssssssttt!

Tutto tace.

Il maestro impugna la sua bacchetta e con un secco, rapido colpo, dà il via alla musica.

Il sipario si apre, la scenografia si manifesta. Lo spettacolo ha inizio.

Avrei voluto continuare, parlarvi del I Atto, parlarvi di emozioni e sentimenti, di morte e di amore, di Scarpia e di Cavaradossi. Ma son costretto a ripiegare su ben più meschino argomento. Il pretesto me l’ha dato l’episodio sconcertante e indicativo avvenuto nel bel mezzo della rappresentazione. E di questo ora vi parlo.

Siamo a metà del secondo atto. Il soprano (Tosca) ha appena finito di cantare la celebre romanza “Vissi d’arte”. E’ il momento più alto della seconda parte dell’opera, ed è senza dubbio il momento più importante per il soprano.
Lei è stata brava (forse non è stata la migliore interpretazione nella storia universale del teatro dei cinque continenti, ma è stata brava).
Partono gli applausi spontanei del pubblico.
Quando gli applausi finiscono, il direttore d’orchestra è pronto a far ripartire la musica.
Ci sono cinque secondi di silenzio.
Al sesto secondo, accade l’imprevisto.
Un signore del palco, nel silenzio generale, con tono sprezzante urla ad alta voce al soprano:

“Potevi fare meglio!”

Cala il gelo. Un silenzio assoluto piomba sul teatro e attanaglia palcoscenico e spalti in un’unica morsa letale.
Dieci secondi dura quel silenzio. Dieci secondi di sconcerto, di attesa, di pensieri.
Il silenzio si prolungherebbe all’infinito se non intervenisse un evento direttamente proporzionale alla causa del silenzio stesso. Un deus ex machina che risolvesse la delicata questione permettendo all’opera di ripartire.
Quell’evento accade.
Allo scoccare dell’undicesimo secondo, il direttore d’orchestra si rivolge al tizio che aveva espresso pubblicamente il suo dissenso e con tono stentoreo gli rammenta ad alta voce:

“E’ facile criticare da là!”

Scatta l’applauso del pubblico.
E’ un applauso caldo, sincero, scrosciante. E’ un applauso rivolto non tanto al direttore d’orchestra, cui va la nostra ammirazione, ma al soprano, cui va il nostro sostegno morale. Un applauso lungo, che è uno schiaffo metaforico a quel signore privo di tatto e di eleganza.
Il soprano recepisce quell’affetto. Ringrazia con i gesti delle mani, coprendosi poi il volto per trattenere le lacrime. Ed è lì, in quel preciso momento, in quell’istante empatico della commozione altrui, che noi abbandoniamo le nostre sedie di spettatori per raggiungere, seppur coi nostri spiriti invisibili e non coi nostri corpi prigionieri della gravità terrestre, il palcoscenico. Ora siamo accanto a lei, siamo accanto all’artista bisognosa del nostro sostegno, del nostro appoggio di spettatori e di esseri umani.
Quell’applauso è stato un fuoco, acceso dalla scintilla del direttore d’orchestra (eletto insidacabilmente a mio eroe personale) che ha alimentato il furore e la calma necessari al soprano per continuare a recitare.
Terminato l’applauso, il silenzio. Terminato il silenzio, tornata la musica. Il secondo atto atto è ripreso, come se non fosse successo nulla. Ma qualcosa era successo.

Torniamo indietro. Torniamo a quei fatidici dieci secondi.
Stavolta non guardiamo la questione dal punto di vista di noi spettatori, ma simuliamo un balzo felino che ci proietti sul palcoscenico. E non limitiamoci a stare accanto al soprano, ma cerchiamo di diventare il soprano, di perderci all’interno dei suoi pensieri, di immedesimarci nell’unicità della sua anima.
Quella frase rivolta dallo sconosciuto non è stata solo una semplice mancanza di rispetto, di tatto, di sensibilità. E’ stata una pugnalata al cuore, una deliberata e agghiacciante umiliazione pubblica.
Dietro un’interpretazione (e qui non stiamo parlando di un saggio scolastico di fine anno, ma della Tosca di Puccini) ci sono anni di sacrifici, di rinunce, di prove, di estenuanti ore passate a imparare, a migliorarsi, a cercare di varcare l’invisibile linea di demarcazione tra l’interpretare un ruolo e il vivere un ruolo. Dietro c’è passione, c’è orgoglio, c’è un cuore che batte.
E poi, dopo sangue sudore e lacrime, dopo ripide salite e porte in faccia, ti ritrovi lì, sul palcoscenico, a dover superare l’ansia della prestazione e la paura del pubblico. Devi fermare le tue mani che vorrebbero tremare. Devi trovare dentro di te la calma necessaria e la concentrazione perfetta. Devi spogliarti di te stesso per diventare un altro (Stanislavskij) o estraniarti dall’altro al punto da guardarlo dall’esterno (Brecht). Devi offrire la tua anima nuda a centinaia di persone che hanno pagato per vederla. E non puoi sbagliare, non puoi fallire, non puoi simulare. Devi essere perfetto/a.
E sei lì, alla metà del secondo atto. E’ il tuo momento. E’ il tuo grande momento.
Stai cantando “Vissi d’arte, vissi d’amore…”. E in quel “Vissi d’arte” c’è tutta te stessa. In quel “Vissi d’arte” c’è una dichiarazione autobiografica, un futuro testamento spirituale, una verità che travalica confini e barriere. In quel “Vissi d’arte” c’è tutta la tua vita di soprano e di artista, di attrice e donna.
E quando hai finito e sei arrivata alla cima della montagna, ecco che uno di quegli sconosciuti a cui hai dato l’anima ti butta giù con tre parole.

Tre parole scaturite da che cosa? Mancanza di educazione, arroganza, esibizionismo…
La questione è molto più complessa. Forse il tizio si è voluto fare bello davanti alla sua ragazza, o ha voluto dimostrare la sua indiscussa (per lui) competenza critica. Ma, molto più banalmente, la sua frase al vetriolo è scaturita da una latente invidia; la classica invidia che l’uomo comune prova nei confronti dell’artista. In verità questa invidia è mal riposta, poiché l’artista è anch’egli un uomo comune che ha scoperto di avere un talento e lo ha manifestato. L’uomo comune in genere è invece un tizio che non sa riconoscere il proprio talento e, dunque, si ritiene inferiore all’artista.
Ma l’idraulico che fa il suo lavoro con straordinaria competenza e infallibile affidabilità, è un artista nel suo lavoro. Il medico che non sbaglia mai una diagnosi e unisce alle conoscenze acquisite un formidabile intuito è un artista nel suo campo. Il genitore che sa educare i propri figli a vivere la vita anziché limitarsi ad attraversarla è un artista anch’egli.
Solo che questi artisti non ricevono applausi alla fine delle loro performance.
Mentre gli attori, i registi, i pittori, gli scrittori, i musicisti, gli scultori, sì.
Ecco allora l’invidia. Ecco allora il risentimento. Ecco pensieri del tipo:

“Vorrei essere nei tuoi panni. Non mi sento inferiore a te, razza di fortunato incompetente!”
Impotenti di fronte al talento altrui, ci vendichiamo esercitando il potere che da sempre ogni spettatore ha sull’artista: il dissenso manifesto. Ma confondiamo il diritto di dissentire con la pretesa di umiliare.
Alcuni artisti hanno il privilegio di poter essere insultati solo dopo che hanno completato la loro opera.
Esempio: a me non può capitare che, mentre scrivo un romanzo, un tizio piombi a casa mia dicendomi: “Fai schifo, un cane scrive meglio di te. Vai a lavorare in miniera invece di sprecare il tuo tempo a sentirti un novello Proust!
Ma ad un attore questo privilegio non è concesso.

Per la cronaca, l’opera è andata avanti regolarmente fino alla conclusione del terzo e ultimo atto. Gli applausi finali si sono protratti per vari minuti.
Sono uscito dal teatro rimuginando questi pensieri.
Fuori la vita e le auto scorrevano con la consueta frenesia.
Ho alzato lo sguardo verso l’alto.

E lucevan le stelle




1 commento:

Anonimo ha detto...

cheeeeeeeeeeeeeee?????????? sono sconvolta!!!!!! posso vagamente capire lo "zaurdo" che stava seduto dietro di me alla Villa Bellini quando anni fa un'artista come Noa è venuta ad esibirsi e lui, tra patatine, coca cola e rumorini strani(che schifo che mi ha fatto!!!), la insultava perchè non gli piaceva...
Posso sforzarmi di capirlo perchè uno spettacolo all'aperto favorisce la mistura sociale ma... in un teatro dovrebbe andarci gente di un certo tipo... Non tipi di questo genere! sarebbe stato più delicato prenderla a parte e dirLe che "Le aveva fatto schifo". Già, ma più stai a pensare che la gente abbia rispetto dei tuoi sentimenti, più cadrai nel "girone" dei cuori infranti, perchè è sempre facile giudicare e sempre difficile esserlo.
purtroppo, per arrivare in alto bisogna subire anche questo, bisogna farsi umile e trarre forza da questi fatti.
parla una che non ha vissuto delusioni sul palco di un teatro, ma su quello della vita, che poi, gira e rigira, sempre là siamo... un pò una pirandelliana interpretazione di mille identità...
più volte sono stata schernita davanti a tante persone, e so quanto questo possa far male. Da lontano, posso sentire il dolore che Lei avrà provato.
Dico che i buttafuori ci vorrebbero dappertutto... un tipo come quello lo avrei spedito fuori a calci nel sedere (per farla pulita!).
beh... speriamo che la nostra interprete tragga solo coraggio in più per affrontare le prossime rappresentazioni, con gente più civile, magari!