sabato 27 gennaio 2007

Il giorno della memoria

Si partì dunque il 31 maggio all'alba nei vagoni bestiame. Il convoglio era scortato da carabinieri e da tedeschi. Il comandante doveva aver ancora qualche parvenza di umanità, perché alla prima fermata d'oltre confine ci permise di tenere i vagoni con le porte in fessura; almeno si respirava un po'.

…In una stazione (credo Monaco) i vagoni con gli uomini vennero staccati (ed inviati a Dachau) e noi proseguimmo alla volta di Auschwitz. Al quinto giorno di viaggio, vennero a chiudere i vagoni e a sigillarli: si stava arrivando nella zona dei Lager, controllata dalle SS.

…Poco prima era arrivato un treno di ebrei ungheresi e sulla panchina erano rimasti gli ultimi: i vecchi e i non autosufficienti. C'era lì un camion e questi venivano presi per le braccia e per le gambe e gettati sul camion tra grida di dolore e orribili tonfi. Quello che ci raggelò fu il vedere che questo tremendo compito era affidato a dei prigionieri.

…Poi, arrivate in una baracca, ci ordinarono di spogliarci ed il nostro pudore di farlo davanti ai soldati fu ben presto vinto dalle violente bastonate che cominciarono a volare. Ci distribuirono dei vestiti provvisori. A me toccò un pastrano da uomo con una grande stella gialla e, mettendo le mani in tasca, trovai una pipa con un borsellino di tabacco.

…Ci introdussero in una baracca che sulla soglia aveva una vaschetta piena di liquido disinfettante o disinfestante, nella quale bisognava mettere i piedi prima di entrare. Ora mi suona così ironico quel procedimento, come quello di raderci tutti i peli e di rapare quelle che avevano qualche lendine di pidocchi, quando poi nel campo imperversavano il tifo, la dissenteria, le cimici e i pidocchi! Ci fecero fare la doccia calda ma brevissima tanto che molte di noi uscirono con i capelli ancora pieni di sapone e così rimasero tutto il giorno perché di acqua, fredda o calda che sia, neanche a parlarne. Poi, sempre nude, ci fecero attendere per delle ore, finalmente poi arrivarono i vestiti.


…Poi in un'altra baracca per la «timbratura», cioè il tatuaggio del numero e la consegna dello stesso numero che dovevamo cucire sulla manica del vestito, assieme al triangolo, rosso per noi «politiche».

…Incominciammo la giornata lavorativa subito. Ci portarono in una parte del Lager dove c'era una strada agli inizi di costruzione. Alle più giovani e alte affidarono delle mazze per rompere la pietra, le altre dovevano spalare il terreno e portare le pietre da rompere. La kapò che ci prese in consegna era una tedesca e dal triangolo rosso capimmo che era una prigioniera politica.

…A mezzogiorno distribuivano il pranzo che consisteva in una ciotola di zuppa e dopo mezz'ora si tornava al lavoro. Per i primi giorni, dovemmo sorbirla senza posate.

…Comunque tornando alla giornata in Lager, alle cinque di sera si finiva il lavoro e poi in fila alla baracca per l'ulteriore appello, quasi sempre più lungo del mattino. Era esasperante, affrante com'eravamo dal durissimo lavoro della giornata ed affamate, dover stare qualche ora ferme sull'attenti e guai a parlare, altrimenti schiaffoni e calci.

…Ho avuto la sventura di conoscere il «Revier» o infermeria. Vi sono stata accompagnata perché febbricitante (avevo 40°). Per il momento non c'era posto, ma aspettai poco perché appena morta una ricoverata mi dissero di occupare quel letto (ovviamente senza cambiare materasso e di lenzuola neanche parlarne). Riuscii almeno a girare il materasso, mi diedero una polverina (un antipiretico?) e lì fui lasciata fino all'indomani. Quando vennero le infermiere per misurarmi la febbre approfittai di un loro momento di distrazione, per vedere e, visto che avevo 38°, scossi il termometro fino a 36°. Dissi che ero sfebbrata e che potevo tornare al lavoro. Ero terrorizzata all'idea di trascorrere ancora una notte in quell'allucinante girone infernale, tra urla e lamenti, che avevano poco di umano, ormai. E poi avevo paura di rimanere perché avevo sentito che spesso e volentieri lì dentro si effettuavano vari esperimenti.


…Ricordo che un giorno fui prelevata per andare a trainare la botte che trasportava le fognature del «Revier». Bisognava andare a vuotarla sopra i letamai, sistemati lontano dal campo. Là vidi un gruppo di prigionieri che doveva spargere il letame sopra quello che avevamo portato. Dal numero sul vestito capii che erano ebrei italiani.

…dopo, quando ci allontanammo, mi voltai e vidi che li stavano bastonando e loro continuavano a muoversi come spinti da forza d'inerzia e non sentivano più neanche le bastonate.

…Poi le infami selezioni. Mettevano in fila quelle da esaminare ed il medico (non sempre era un dottore, a volte anche un semplice SS) con un cenno le ridistribuiva in due file ed era chiaro quale era la fila da eliminare! Le donne destinate a quelle file non si davano a smaniare o a disperarsi. Quasi tutte vi andavano come inebetite, in silenzio e quel silenzio era più tremendo di qualunque pianto. Gli aguzzini avevano raggiunto il loro scopo: era bestiame da macello, vi andava senza protestare.

…Talvolta alla sera c'era il «Lagersperrer» cioè l'ordine di ritiro nelle baracche. Lo facevano quando avevano da eliminare le occupanti di una intera baracca e noi non dovevamo vedere quelle donne attraversare il campo ed uscire dalla parte dei crematori. Alla notte avevi il riverbero sulle finestre delle enormi fiammate che si sprigionavano dai camini. Così fu eliminato un intero campo di zingari. In una notte furono uccisi centinaia di nomadi. Di questi si parla pochissimo e ciò mi indigna, c'è del razzismo nel fatto di ignorare che anche queste popolazioni sono state perseguitate e che fanno parte dell'olocausto.

…Dopo poche settimane del nostro arrivo cominciò a farsi sentire in modo cronico la fame fino al punto che eri già disposta a prenderti qualche bastonatura per arrivare a ripulire i mastelli della zuppa.

…non avevano un etto di carne addosso, camminavano lentamente e parlavano con una vocina appena udibile, con le gambe rigate dai loro escrementi che ormai non potevano trattenere.

…Da qualche indiscrezione sapemmo che stavano lentamente evacuando il campo di Auschwitz perché il fronte sovietico stava avanzando e questo ci rese anche ottimiste. Uscendo dalla stazione, mi voltai e vidi l'infame portone con la scritta «Arbeit mach frei». Bene, mi dissi, forse ora ce la faremo.

Testimonianza di Ondina Peteani, deportata ad Auschwitz

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