mercoledì 17 gennaio 2007

Io, me stesso e la porta chiusa a chiave

A volte le più grandi verità sono così semplici che le rifiutiamo, o le ignoriamo, o le sottovalutiamo, proprio a causa della loro semplicità. Il detto popolare per cui si impara a stare bene con gli altri solo dopo che si è imparato a stare bene con se stessi, è una di queste verità. Talmente semplice nella sua linearità e consequenzialità logica da risultare quasi superfluo commentarla. Se mi accingo a farlo è perché noi poveri esseri umani nevrotici siamo tendenzialmente portati a complicare le cose e se siamo bravi a disquisire sulla complessità di una figura geometrica a cento metri di distanza, siamo meno bravi a descrivere un naso che si trovi a trenta centimetri dal nostro occhio (o un occhio che si trovi a trenta centimetri dal nostro naso).
Poiché proiettiamo sugli altri la nostra visione del mondo e il nostro intimo sentire (qui usato col significato di percepire) è evidente che se detestiamo noi stessi, detesteremo anche gli altri, se colpevolizziamo noi stessi colpevolizzeremo anche gli altri, se non abbiamo fiducia in noi non l’avremo negli altri, se non ci prendiamo sul serio non prenderemo sul serio gli altri, se non ironizziamo su noi stessi non ironizzeremo sugli altri (almeno non con la stessa ironia), se mentiamo a noi stessi tanto più mentiremo con gli altri.
Se io odio me stesso odio il mondo intero, perché io sono il mondo. In quanto io sono parte del tutto e la parte contiene il tutto (almeno secondo una certa visione filosofico-scientifica di cui sono sostenitore) odiare me significa odiare l’universo.

Pensiamo alla solitudine.
Quando io sto solo (e cioè quando nessun essere umano o animale oltre a me è presente nel raggio di dieci chilometri, o giù di lì) in realtà sono in compagnia. In compagnia di me stesso e (per chi ci crede) in compagnia di Dio.
Se non riesco a stare per più di mezz’ora in questa situazione, a convivere con la sola mia presenza senza avere il desiderio o il bisogno di uscire fuori e vedermi con qualcuno, soffro di una grave malattia:

L’INCAPACITA’ DI STARE BENE CON ME STESSO.

Se non so stare bene con me stesso, come potrò stare bene con gli altri?
Il rassicurante senso di sicurezza che mi dà la folla (il gruppo, la compagnia, la presenza altrui) è solo un’illusione creata dal mio cervello per celare la mia incapacità di relazionarmi seriamente con le altre persone.
Chi soffre di solitudine cronica è malato. Chi non sa stare da solo per più di mezz’ora è malato. Il guaio è che non sa di esserlo.
E’ come se sin dalla nascita camminasse con un sassolino nella scarpa (e non si togliesse mai la scarpa). Dato che il camminare con il sassolino è sempre stata una costante, non si accorge di averlo. Solo quando il sassolino viene rimosso e impara a camminare senza, si accorge della differenza.
Allo stesso modo chi è malato dalla nascita può rendersi conto della presenza della malattia solo nel momento in cui guarisce.
Vi siete mai chiesti perché i rapporti tra le persone (le amicizie, le relazioni sentimentali, i matrimoni…) durano spesso molto poco, molto meno di quello che avevamo previsto o sperato, molto meno di quanto un normale rapporto dovrebbe durare? La risposta non è negli altri, ma in noi stessi.

Dobbiamo chiuderci a chiave nella nostra stanza, e non aprire a nessuno. Dobbiamo isolarci, e imparare a stare da soli. Dobbiamo imparare a sopportare la nostra presenza, a conoscere le pieghe più profonde e invisibili della nostra anima. Dobbiamo imparare a convivere con le nostre paure e i nostri sogni, a tollerare la nostra voce. Dobbiamo parlare a noi stessi, e poi ascoltarci con attenzione, e ridere dei nostri difetti per poi cercare di correggerli, e imparare a memoria il nome e il cognome delle nostre virtù per poi metterle al servizio dell’umanità.
Dobbiamo guardarci, e amarci. E solo quando avremo imparato ad amare veramente noi stessi, potremo aprire la porta della nostra stanza e uscire fuori, incontrare gli altri esseri di questo mondo, e vivere con loro.

1 commento:

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